Carlo Borromeo (1538-1584) rimane una figura controversa, su cui si scontrano impostazioni di giudizio in conflitto tra di loro. È stato sempre così, fin da quando si vide catapultato alla guida della grande Chiesa di Milano, dopo essere stato un protagonista di primo piano della vita della Roma papale, negli anni in cui si avviava a conclusione l’impresa del Concilio di Trento.
E oggi le cose non sono certo cambiate: sui libri di storia e nelle aule universitarie si continuano a proiettare su di lui le ombre negative di una Controriforma immaginata come un sistema di soffocante dominio dispotico. Lo si presenta come un nemico del libero pensiero (in realtà, un’invenzione che avrebbe fatto la sua comparsa in Occidente solo due o tre secoli più tardi). Santo, sì, protettore dei poveri e taumaturgo; ma anche persecutore accanito di streghe ed eretici, esageratamente misogino e nemico di ogni forma di compromesso: uomo di legge e di potere, inflessibile nell’elaborare regole e nell’imporre gioghi pesanti in un nome di una fede che, per i leader cattolici del suo tempo, era anche costume sociale, norma condivisa obbligatoriamente valida per tutti, tesa a inglobare ogni dettaglio dell’esistenza nelle reti di una sacralità posta al centro della vita del mondo.
Lo schema del rifiuto polemico riflette il disagio con cui la tradizione culturale dominante ha guardato ai fondamenti di una modernità divaricata dalle sue matrici costitutive: l’anima cristiana del suo tessuto di base è entrata in contraddizione con le visioni ideologiche che hanno avuto il sopravvento, e così si è finito per amputarla, o per fornirne una ricostruzione deformata, unilaterale e a senso unico. Al posto dei percorsi che hanno segnato la strada del cantiere di sviluppo degli ultimi secoli, si esaltano le deviazioni, le smentite, i fallimenti, facendo calare il silenzio sulle linee maestre che hanno plasmato più in profondità il destino collettivo.
Per smantellare le trappole dei preconcetti faziosi, l’unico rimedio è tornare alla realtà oggettiva delle cose di cui si parla. Per avvicinarsi alla vera figura di san Carlo, bisognerebbe avere la pazienza di riprendere in esame i modelli che ha tracciato per la vita di ogni credente, laici compresi. Si dovrebbe tornare a leggere i discorsi che ha pronunciato, i libri che ha fatto stampare, mettersi in ascolto degli insegnamenti lanciati dai predicatori, dai religiosi zelanti, dai sacerdoti più motivati e consapevoli entrati a far parte della sua cerchia. Accostandosi all’universo religioso di san Carlo dal suo interno, non si può non veder affiorare la vena di un ardore infiammato e carico di slancio missionario che scaturiva dalla sorgente primaria dell’avvenimento cristiano: la contemplazione riconoscente e ammirata del prodigio dell’amore misericordioso del Dio che si è fatto carne, uomo in mezzo agli uomini, per indicare la via e spalancare senza riserve il dono della salvezza per tutti. L’amore di Cristo spinto fino all’eccesso dello svuotamento paradossale del Golgota divenne, per lui, il paradigma supremo con cui identificarsi: ogni uomo di fede, prima di tutti il vescovo-pastore a capo del gregge cristiano, non doveva avere altra forza su cui poggiare che quella di un abbraccio intriso del sangue versato dal Redentore, tradotto nella sostanza di un pane reso cibo eucaristico a cui sempre tornare ad attingere.
Le omelie di san Carlo per i cicli quaresimali degli ultimi anni della sua vita, così come quelle per la festa del Corpus Domini, sono la testimonianza impressionante di un cristianesimo ricondotto alla sua essenzialità: un cristianesimo dal cuore antico, e proprio per questo fedele alla sua autenticità, ostinatamente creativo, capace di diventare fermento di rinnovamento continuo dentro le pieghe insidiose della storia, anche quando questa va in una direzione tutta diversa.
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