Come si fa ad amare ciò che non si capisce, ciò che non attrae più, ciò che ci porta solo domande o dolore? Che cos’è l’amore e come insorge nella vita dell’uomo? La Chiesa non risponde a queste domande con un trattato o una teoria, ma mettendoci davanti un uomo che l’amore ha dovuto impararlo. La festa di san Giuseppe non è anzitutto la commemorazione di un uomo che si è comportato bene o che ha fatto buon viso a cattivo gioco: la festa di san Giuseppe è l’occasione per capire di più come si possa amare la vita che c’è, quella che ci è data, quella in cui ciascuno di noi è immerso.
L’iconografia ha sempre rappresentato lo sposo di Maria come un uomo in avanti con gli anni, un uomo che forse aveva già amato ed era rimasto vedovo o – secondo la vulgata comune – un uomo che aveva dovuto attendere molto prima di coronare il proprio desiderio d’amore. In questo senso Giuseppe rende evidente che l’amore non è un sentimento, un impulso che uno prova davanti alla vita, bensì un giudizio che si matura poco per volta: ci vuole tempo per amare. Troppo spesso quando accadono le cose corriamo subito a definirle o a commentarle con le parole che già sappiamo e conosciamo: le nominiamo prima ancora di viverle. Un dolore diventa un’occasione di bellezza non dopo quarantacinque secondi, ma dopo un cammino in cui di bellezza non s’è vista neppure l’ombra. Un matrimonio diventa una strada di conversione non appena uno dei due si mostra fragile e inadeguato, ma dopo che tutta quella fragilità e quell’inadeguatezza hanno tirato fuori dalla carne dell’altro le domande vere, le domande ultime. San Giuseppe per amare deve attendere, deve accettare che passi del tempo. E quando l’amore arriva, deve aprire il cuore, deve essere disponibile al fatto che l’amore che ha lungamente atteso non sia come quello che aveva in mente. Accogliere Maria incinta di Gesù era completamente fuori dai suoi programmi. Così come è fuori dai programmi di tutti sposare un uomo che dopo qualche anno attraversa un tumore, o rendersi conto che non si possono avere figli o, ancora, fare i conti con le fragilità dell’altro, le sue infedeltà o le sue dipendenze: nessuno riesce ad amare nel modo che ha in testa. Tutti siamo chiamati ad amare quello che abbiamo davanti, quello che c’è, quello che ci sorprende e che mai ci saremmo aspettati.
Con una battuta si potrebbe dire che Giuseppe ha imparato ad amare perché è stato disponibile all’imprevisto, all’imprevedibile, e in quell’imprevisto ha riconosciuto una chiamata per sé e per il proprio desiderio di vita.
Ma san Giuseppe ha fatto molto di più: attraverso l’esperienza del sogno ha deliberatamente scelto di non seguire solo quello che capiva, di non far precedere l’emozione alla disponibilità del cuore. Se Giuseppe avesse seguito le sue emozioni, Maria sarebbe stata lapidata o nascosta per sempre nella vergogna: invece ha ascoltato il sogno, ha preso sul serio il fatto che quella cosa lì che era accaduta fra loro non fosse l’esito di un disegno umano, ma un misterioso dono, una Grazia. Quanti figli non sono come li abbiamo pensati e vorremmo educarli soltanto con le nostre emozioni, che spaziano dal risentimento per una vita ingiusta ad un buonismo stanco e inconcludente! Invece l’educazione è sguardo, è attenzione, è riconoscimento del fatto che l’altro non è mio e che c’è perché io cambi.
Un uomo che educa è un uomo che si fa educare, non uno che riesce a imporre brillantemente o subdolamente il proprio punto di vista sull’umano. In questo occorre evidenziare che san Giuseppe è stato anche l’uomo del silenzio, l’uomo che non ha preteso, ma che ha costantemente atteso. È come se rispetto alle domande della vita, le persone mettessero una data di scadenza e decidessero il punto, il momento, in cui passare dal silenzio di chi aspetta alla violenza di chi sceglie di mettersi in proprio e fare da sé. Quanta vita buttiamo via perché la ricopriamo con la nostra impazienza. Un’impazienza che a volte è alcool, fumo, gioco, sesso a pagamento, altre volte è soldi con cui pensiamo di mettere a posto la vita di tutti, grigliate, tempo libero. È così difficile stare in silenzio a godersi lo spettacolo che non possiamo fare a meno di gestire noi lo spettacolo, di manipolare il reale credendo che con le nostre mani otterremo più amore. E invece, puntualmente, quello che si ottiene è più dolore.
Infine Giuseppe ama perché ad un certo punto sa fare la cosa più grande di tutte: sa sparire, di lui non si sa più nulla. Che sia morto o meno non importa, perché l’amore è questa ultima capacità di dare la vita, di consegnarla senza condizioni, di condividerla e di sparire, senza vedere come va a finire, senza dover per forza entrare – ad imitazione di Mosè – nella terra promessa. Chi cambia la vita agli altri non resta al centro della pista da ballo finché le luci si spengono, ma sente tutto il gusto di vedere gli altri ballare senza di lui.
La storia di san Giuseppe è la storia di un uomo che ha capito che per amare ci vuole tempo, ci vuole disponibilità, ci vuole libertà dalle proprie idee ed emozioni, ci vuole silenzio e capacità di farsi da parte. Per abbracciare la vita non servono sforzi, serve coltivare il segreto di Giuseppe: lo sposo di Maria ha potuto vivere tutto quello che abbiamo raccontato non perché migliore di altri, ma perché non ha mai perso di vista il suo dialogo con il Mistero. Senza dialogo con il Mistero, senza rapporto appassionato con il Tu che domina la vita, siamo ostaggio delle nostre emozioni, schiavi del nostro vuoto, in balia dei mille pensieri dell’esistenza. Giuseppe, al contrario, si è lasciato così amare dal Mistero che di quel Mistero ha potuto diventare padre.
E forse la legge dell’amore e della paternità è proprio quello che questa festa ci suggerisce: voler bene non è altro che cedere all’amore di un Altro che già ci ama. Di Uno che ci chiede solo, e sempre, di aprire il cuore per accadere nella nostra vita. E diventare nostro Figlio. Egli ci abbraccia continuamente per poter costantemente riaccadere. In ogni luogo e in ogni tempo. In ogni tratto dell’umana avventura.
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