San Patrignano ha da sempre diviso l’opinione pubblica, tra chi ne ha fin da subito appoggiato il progetto, e chi lo ha condannato per i metodi ‘bruschi’ con cui si è sempre cercato di recuperare i ragazzi tossicodipendenti che vi entravano. Dalla sua nascita, nel 1978, grazie al suo padre fondatore Vincenzo Muccioli, sulla comunità di recupero si sono accesi i riflettori dei media fino agli anni ’90, con testimonianze di chi ci ha vissuto e vicende finite nelle aule di tribunale.
Dopodiché è calato il silenzio. Se ne è tornato a parlare nel 2021 grazie ad un film documentario trasmesso su Netflix, ‘SanPa, Luci e tenebre di San Patrignano’, che racconta la realtà di quando era alla ribalta. La trama si ferma infatti al 1995, quando muore Muccioli, in attesa dell’esito di un procedimento a suo carico che lo vedeva imputato per favoreggiamento, per aver tenuto nascosto l’omicidio commesso all’interno della struttura a danno di uno degli ospiti. E ‘Le Iene Inside‘, dopo essersi già occupato di San Patrignano in passato, torna con uno speciale, in onda stasera su Italia 1, a raccontare della comunità riminese.
IL ‘METODO MUCCIOLI’
Il cosiddetto ‘metodo Muccioli’, utilizzato all’interno di San Patrignano, ha spesso suscitato dubbi, non solo in termini di concreta risoluzione del problema della tossicodipendenza, ma soprattutto perché i mezzi adoperati venivano considerati coercitivi e limitativi della libertà personale. Gli interrogativi sull’affidabilità del ‘modus operandi’, negli anni ’80, si sono trasformati in testimonianze e processi. Famoso fu il ‘processo delle catene’. Muccioli era contrario infatti al ricorso a medicinali e psicofarmaci, preferendo immobilizzare gli ospiti con le catene per evitare che scappassero e ricadessero nella droga. Chi riusciva a scappare però aveva denunciato il fondatore della comunità riminese di recupero, tacciato di torturare chi entrava nella struttura.
E qui ha preso campo una lunga vicenda giudiziaria con cui si è cercato anche di far leva sulle cause di giustificazione addotte dallo stesso Muccioli. Si è puntato dapprima sul consenso degli aventi diritto, dal momento che prima di entrare in struttura firmavano una sorta di documento di autorizzazione ai trattamenti (discutibili) di disintossicazione. E poi si è arrivati al concetto di stato di necessità, ravvisato nell’esigenza di salvare le vite dei tossicodipendenti che decidevano di affidarsi a San Patrignano. L’assoluzione di Muccioli arrivò, con tanto di conferma in Cassazione, nel 1989.
IL SECONDO PROCESSO SUL CASO DI SAN PATRIGNANO E LA REALTÀ ODIERNA
Più intricato è stato il secondo processo che vide nuovamente imputato Vincenzo Muccioli. Stavolta fu dapprima accusato di omicidio colposo per l’assassinio di uno degli ospiti, Roberto Maranzano, morto a seguito di ripetute percosse. Poi si scoprì che non fu lui l’autore materiale del fatto ma ne era comunque venuto a conoscenza. Muccioli, per sua stessa ammissione, preferì tacere per salvare l’immagine di san Patrignano. Fu così accusato di favoreggiamento. Il fondatore della comunità di recupero morì nel 1995, prima della sentenza definitiva di condanna.
E oggi com’è San Patrignano? Sembra essere molto diversa dagli anni della fama. La famiglia Muccioli non la gestisce più dal 2011. La gestione, da allora, è passata a Letizia Moratti e al marito Gianmarco (deceduto nel 2018). Con la nuova amministrazione la struttura ha cambiato volto: oggi ospita 1000 tra ragazze e ragazzi e vi operano educatori professionisti, psicologi e anche psichiatri. Inoltre non vengono più accettati tossicodipendenti in astinenza, lasciando che vengano seguiti piuttosto dai Sert e da altre strutture con cui San Patrignano da anni ha preso a collaborare attivamente. La comunità ha anche attivato diversi programmi di laurea in collaborazione con un’Università telematica e 40 laboratori, dove è possibile formarsi ad attività lavorative. Lo spirito resta quindi quello del recupero ma lontano dai metodi Muccioli, avvalendosi di professionisti e puntando alla formazione per la reintroduzione sociale.