Fin dall’inizio della crisi da virus abbiamo sottolineato che gli strumenti tradizionali con cui si affrontano le tensioni del mercato del lavoro non sarebbero bastati. Gli interventi attraverso l’estensione della cassa integrazione, in tutte le sue forme, hanno il pregio di salvaguardare il rapporto di lavoro, ma riescono a coinvolgere solo una parte dei lavoratori. L’estensione di forme di sostegno al reddito a partite Iva, professionisti e lavoratori autonomi ha cercato di allargare la platea degli interventi. Il blocco delle attività, il distanziamento fisico e la quarantena forzata presso le abitazioni hanno fatto emergere però una nuova dimensione del lavoro che normalmente tendiamo a considerare solo in presenza di notizie che riguardano casi estremi e che poi torniamo a trascurare fino alla disgrazia successiva.



Così i tanti lavoratori che hanno qualche problema di regolarità, perché assunti in nero oppure solo parzialmente in regola, con permessi a tempo e legati alla continuità del lavoro o permessi scaduti da regolarizzare, sono diventati solo in un secondo momento un tema di discussione.

Per chi vive di promesse di distribuzione di soldi è diventata l’occasione per proporre, dopo il reddito di cittadinanza, una nuova forma di contributi a pioggia battezzata reddito di emergenza. E oltre a questa nuova distribuzione si sono aggiunti sussidi per colf, badanti e babysitter che non hanno potuto lavorare in questo periodo. Si badi che per tutte queste nuove fasce di lavoratori cui assicurare un sistema di ammortizzatori sociali non si sono previste né condizioni di disponibilità lavorativa, né interventi per favorire un loro ritorno all’attività nel rispetto di protocolli di tutela della salute.



Arrivati a comprendere come la realtà del lavoro si sia stratificata e resa più complessa rispetto a quella cui corrispondevano gli strumenti di tutela nelle crisi economiche che avevamo a disposizione è emersa un’altra grande verità: vi sono interi settori economici che si alimentano di lavoro al limite della legalità o addirittura nella completa illegalità. La memoria dovrebbe tornare a una notizia di alcuni anni fa su un fatto avvenuto alle porte di Milano. All’alba di un inizio di settimana fu segnalata una mega rissa fra un gruppo di uomini del centrafrica e un gruppo di uomini di origine magrebina. Non si trattò di uno scontro fra gruppi dediti a traffici illegali, ma di uno scontro fra lavoratori di due pseudocooperative. Una delle due società aveva scalzato l’altra da un appalto di servizi di logistica presso una piattaforma di distribuzione merci. Venne così alla luce che anche grandi e rinomate società della logistica ricorrevano a usare finte cooperative che, con salari al limite della sopravvivenza, assicuravano manodopera immigrata sotto il ricatto dei permessi di soggiorno. Un moderno schiavismo sostenuto da regole amministrative che producevano irregolarità invece di trasparenza.



Era una delle avvisaglie che dimostravano come vi fossero settori economici, anche evoluti e legati a filiere innovative, che inglobavano un uso del lavoro di tipo primordiale. Poche tutele, bassi costi e l’uso del ricatto che si avvale di norme che rendono clandestino anche chi non lo è, non è solo un fatto del passato, ma ancora oggi emerge con forza in molti settori.

Oggi esplode in modo evidente la necessità per il settore agricolo di avere a disposizione manodopera temporanea per assicurare il raccolto in tempi utili. È il tipico lavoro che richiede una occupazione legata alla stagionalità dei prodotti e non è in continuità. Avendo abolito le forme di pagamento che coprivano sicurezza sul lavoro e sicurezza sociale in nome di un’ideologia che ritiene cancellabile la flesssibiltà delle produzioni per legge, si ripresenta la necessità di avviare contro lo sfruttamento del lavoro bracciantile una nuova fase.

Quanto visto in questi giorni per il settore agricolo riguarda però anche altri settori come la logistica che attendono da tempo un intervento che permetta di fare emergere il lavoro altrimenti irregolare.

Il virus ha reso visibili centinaia di migliaia di lavoratori che non volevamo vedere. Regolarizzare la loro permanenza in Italia è il primo ed essenziale passo per portare a fondo l’impegno a combattere lavoro nero, caporalato e supersfruttamento. Razzisti e populisti stanno opponendosi in questi giorni alle misure proposte dalle rappresentanze delle imprese perché, dietro il loro gridare prima gli italiani, vi è la scelta di stare dalla parte degli schiavisti, di chi vuole il lavoro senza regole, né tutele.

Non serve nemmeno ricorre ai sacri principi dell’uguaglianza delle persone per comprendere come sia urgente intervenire. Chi usa il caporalato, le finte cooperative, chi impone costi che non coprono i minimi salariali fissati dai contratti di categoria, fa concorrenza sleale a chi nel settore lavora onestamente e commette un atto di slealtà a tutto il sistema-Paese. Non possiamo più tollerare che vi siano territori dove il lavoro non trova il giusto riconoscimento economico e goda delle stesse tutele che ha nel resto del Paese.

Non si tratta di fare semplicemente un’operazione di regolarizzazione di finti clandestini (vivono da anni con noi in accampamenti visibilissimi), ma di avviare un’iniziativa di emersione di imprese che derubano i lavoratori, il fisco ed i consumatori. La regolarizzazione è il primo passo per avviare percorsi che devono portare a restituire dignità a chi lavora in questi settori senza dover subire ricatti medievali. Certo assieme e questa prima misura va messo in atto un processo di controllo e trasparenza sull’applicazione dei contratti e delle tutele sul lavoro e in caso di perdita dell’occupazione.

Tutto il nostro sistema di welfare è stato pensato a partire dalla posizione lavorativa della persona. Oggi questo schema non permette di dare tutele a tutte le forme dei rapporti di lavoro. Non è certo con la semplificazione per via legislativa che si arriva all’abolizione della complessità e della flessibilità che caratterizza oggi la realtà del lavoro. Per arrivare a estendere a tutti i nuovi lavori diritti e tutele è bene ricorrere a chi in questo mondo è immerso e lo conosce bene. Senza favorire nuovi corporativismi bisogna coinvolgere patronati sindacali e associazioni d’impresa perché sia in fasi di espansione economica e soprattutto nella gestione delle crisi si producano strumenti di supporto che arrivino a chi ha più bisogno e sostengano le capacità di ripresa.

I lavoratori della logistica con quelli impegnati nell’agrindustria e nei servizi alla persona che attendono con la regolarizzazione un riconoscimento per quanto hanno contribuito e contribuiscono alla nostra economia sono circa un milione. Riconoscergli la dignità che meritano è un ringraziamento per quanto hanno fatto, ma soprattutto un contributo a rendere più equo il nostro modo di vivere e di produrre.

Dare a chi lavora il giusto riconoscimento di diritti, tutele e salario è un aiuto a fare crescere un sistema produttivo migliore per tutti.

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