Passeggio di sera per le vie di Laigueglia, borgo tra i più belli d’Italia, adagiato sulla riviera ligure di ponente e guardo la spiaggia. Il mare si è ripreso la terra e, sorta di spietata sottrazione, si è portato via tutte le strutture costruite dagli uomini nella stagione estiva. Al posto degli ombrelloni ora ci sono solo alberi sradicati, che la furia del maltempo ha portato via dagli argini dei fiumi e, cavalcando le onde, trascinato sino a qui. Guardo la spiaggia, contemplo ciò che resta dopo un’alluvione e penso a come debba apparire il mare a bordo di barconi che, da troppo tempo ormai, lo attraversano ogni giorno da un continente all’altro.



Sono qui per partecipare ad una rassegna dal nome curioso – “il salto dell’acciuga” – che racconta di “ricette, sapori e profumi di popoli affacciati sullo stesso mare”. Street food, ma anche percorsi enogastronomici, presentazioni di libri e buona musica. E questa sera in scena c’è la Sandàlia Orchestra, un progetto ideato da Mario Cau, che vuole unire sonorità e tendenze musicali differenti proponendo brani che valorizzino il Mediterraneo e le sue influenze lungo un percorso in chiave multietnica. “Siamo partiti da ritmiche “afro” – mi spiega Mario – giungendo poi ad una rilettura in chiave jazz e funk, grazie anche all’aiuto di tanti amici, musicisti di professione”. Ed il concerto di stasera si rivelerà esplosivo, facendo divenire riduttivo il sottotitolo di “progetto di musica folk afro” indicato dalla locandina. La band mostrerà infatti, nell’esecuzione dei tredici brani, un mélange di suoni in cui non mancheranno anche accelerazioni rock e passaggi degni della tradizione blues. Basterebbe soffermarsi, ad esempio, sulla capacità di un ospite d’onore come Cheikh Fall di suonare la kora, strumento via di mezzo tra un’arpa e un liuto e che, grazie alla sua maestria, appare altrettanto efficace quanto la chitarra di un Mark Knopfler.



Ma quello di stasera non sarà soltanto un grandioso spettacolo musicale, reso tale da un gruppo di musicisti talmente bravi da mostrare un’intesa che ha dell’incredibile, visto il poco tempo che hanno avuto per provare in precedenza i brani, ma anche un pezzo di strada affascinante da percorrere insieme. “Il tema della rassegna, quest’anno, era il sale – mi racconta ancora Cau, leader del gruppo, nonché ottimo cantante e talentuoso chitarrista – e con esso tutto ciò che è legato agli spostamenti della merce e delle persone. E’ sorto spontaneo, quindi, il desiderio di raccontare in qualche modo la vita dei viaggiatori”. Non mi parla di migranti, ma è sottinteso quanto gli stia a cuore la loro sofferenza. E la musica, specie quella jazz, che trasforma le note nei colori variegati di un affresco, è quella che “germoglia ovunque, riuscendo a comprendere l’anima delle terre in cui viene a trovarsi”, quasi che ogni sbarco sia una sua rigenerazione a vita nuova.



Il concerto diventa perciò un’avventura, attraverso canzoni che, tra un pezzo e l’altro, vengono introdotte con poche parole, ma efficaci nel prendere gli spettatori per mano. Afro Blues è la prima ed è subito mal d’Africa, quello di chi parte da un luogo sicuro per arrivare in un altrove ancora ignoto. Siamo saliti su un’imbarcazione e contempliamo la notte – A Night In Tunisia è il secondo brano – ma il viaggio è già iniziato nel momento dei saluti a coloro che lasciamo: La Vie En Rose, brano immortale di Edith Piaf, reso in una bellissima versione, porta in sé la speranza di non vedere nel futuro una minaccia per la propria esistenza. “Un goccio di vin ci sta”, dice Mario con un bicchiere di Rossese in mano, prima di attaccare Caravan, il quarto brano, e ti sembra di vederla, la carovana dei viaggiatori, che nel buio della notte è ormai partita. Ma la terra d’origine è ancora vicina e allora c’è bisogno di scrutare il cielo, alla ricerca di segni rassicuranti sul destino. Così Blue Moon ci fa sognare e lungo la melodia sembra di leggere il sorriso della luna sul viaggiatore, che gli dice che ci sarà sempre luce a rischiarare il suo percorso.

Song For My Father è il brano successivo, una lunga cavalcata musicale dove il tema di fondo sono gli sguardi tra chi parte e chi resta, specie quelli dei bambini che vedono andar via i propri genitori. La canzone si sviluppa a partire da una base ritmica africana, ben sottolineata dalle note della kora e dalle movenze delle ballerine che, ripetutamente, compaiono durante il concerto, rendendo ancor più ipnotici e seducenti i brani, snodandosi poi lungo sviluppi funk, sottolineati dagli ottimi fiati, e percorsi di pura improvvisazione jazz, guidati dalla sezione ritmica e dai fluidi assoli della chitarra di Mario, talvolta anche con tratti di furore che non si esagererebbe a definire punk.

Siamo a metà strada ed il viaggio ci affascina sempre più, ma il meglio deve ancora venire. Clandestino, canzone di Manu Chao, dice che “non sempre si è ben accolti e chi si è mosso nella vita lo sa bene”. Per questo adesso affiora anche la nostalgia, perciò è il momento di Se ghe penso, in cui il testo di Bruno Lauzi viene declamato da Simonetta Tassara lungo le note della canzone. The shadow of your smile è il brano successivo, prima di una versione de Il pescatore, di Fabrizio De André, nel quale le radici liguri e sarde di Mario Cau iniziano ad affacciarsi prepotentemente. “Questa canzone – mi spiegherà poi Mario – narra del ritorno a terra dei pescatori, ma io l’ho intesa con un significato più largo, che racchiude il concetto di approdo”. E’ a questo punto che, durante il concerto, ci viene svelato che Sandàlia, il nome dell’orchestra che ci sta deliziando, è uno di quelli che vengono dati alla Sardegna. Sardegna che, secondo alcuni racconti misteriosi, è addirittura l’antica Atlantide. Sardegna che, per tutti, è il cuore del Mediterraneo, davanti al canale di Sicilia, uno dei luoghi più insidiosi per i naviganti di ogni tempo.

No potho repusar, dei Tazenda, è il brano che giunge spontaneamente a questo punto del viaggio, prima che ci si avventuri in una versione intensissima di Creuza de ma, popolarissimo brano, ancora di De André. Mi racconterà, all’indomani del concerto, Mario, di come questa canzone, suonata da lui in tante altre occasioni, sia diventata più sua dopo averne analizzato il testo in un pomeriggio passato a Laigueglia insieme ad un professore di dialetto genovese e davanti ad una bottiglia di vino. Quella canzone – mi spiega con una passione letteralmente contagiosa – racconta di quelle due o tre ore passate in taverna dai pescatori, arrivati stanchi dal mare, prima di rientrare a casa e che, nel mangiare e bere, e nell’amicizia del loro stare insieme, ritrovano le energie perdute. Un’energia che Mario dice di aver sentito sprigionarsi con forza durante il concerto, e che egli ha percepito nell’intensità delle esecuzioni ed attraverso gli sguardi reciproci d’intesa tra i musicisti; energia che, poi, è arrivata anche a noi, là sotto il palco, come fossero onde di un mare dolce e gentile, per poi ritornare di nuovo a loro, in una sorta di circolo virtuoso. Dopo Creuza de ma, l’ultimo brano è pura improvvisazione musicale e serve a presentare i singoli musicisti, per ringraziarsi a vicenda dell’esperienza che si è vissuta.

L’esperimento di Sandàlia Orchestra appare riuscito in pieno, a giudicare dalla gioia che, dopo lo spettacolo, traspare dai volti di chi l’ha vissuto e si propaga come un’onda lunga e tranquilla, che scavalca la notte e giunge fino al mattino, presentandosi davanti alla spiaggia come fosse il sussurro di un mare finalmente quieto, in grado di accarezzare la vita, mentre gli appuntamenti della rassegna de “il salto dell’acciuga” proseguono, felici, il loro corso. Così che il clima, adesso, non appare più minaccioso come mi era parso, invece, nell’oscurità della notte che aveva preceduto questo viaggio di canzoni e di persone. Il mare ha fatto pace con la terra ed è come se le dicesse che è possibile rimettersi in cammino in modo nuovo. Papa Francesco ha dedicato il suo recente messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “verso un noi sempre più grande”. E’ questo l’orizzonte che ci accomuna tutti, approdo comune di un’unica umanità. Quella che, dice il Papa, ci vede come “compagni dello stesso viaggio, figli e figlie di questa terra che è la nostra Casa comune, tutti fratelli e sorelle”. Ed è questa la speranza che portiamo in cuore, mentre, grati, ripensiamo alla musica che ha veicolato l’esperienza che abbiamo vissuto insieme. Una strada fatta di note e di parole, lungo la quale ci è sembrato di assaggiare un pezzetto di quel paradiso di cui, se solo volessimo, potremmo cibarci sempre di più.