Musa certo, per Fellini soprattutto, ma più di ogni altra cosa Sandra Milo è stata la Marilyn Monroe italiana o avrebbe potuto esserlo. Corpo ingabbiato nell’etichetta di maggiorata, voce infantile, atteggiamento leggero e svagato che si apre inaspettato al dramma. Sandrocchia, come la vezzeggiava proprio Federico Fellini, è morta ieri a 90 anni, vissuti come aveva vissuto, leggerissima e sopra le nuvole, o almeno dando sempre questa impressione, anche quando si interessò di politica e questioni civili, specie a partire dagli anni ’80.
Se il regista di 8½ e Giulietta degli spiriti la resa un’immagine immortale, non fu però lui a coglierne il potenziale cinematografico: Milo, nata Salvatrice Elena Greco a Tunisi nel 1933, esordì al cinema nei ruoli un po’ pigri e un po’ ammiccanti che si concedevano alle belle giovani donne dell’epoca, in film comici o di genere, di cassetta e senza nessuna pretesa artistica, parti di secondo o terzo piano. Però quel volto e quel modo di recitare con il fisico, ché la voce spesso veniva doppiata, colpirono la sensibilità artistica di uno dei più grandi ritrattisti, specie femminili, del cinema italiano, Antonio Pietrangeli, che da subito le affidò ruoli complessi, come quello di Gabriella in Lo scapolo (1955), seguiti da ruoli e performance ancora migliori come nello struggente Adua e le compagne (1960) o in Fantasmi a Roma (1961), ma soprattutto nel bellissimo La visita, col senno di poi la migliore prova d’attrice di Milo. Pietrangeli colse proprio l’ombra di dolore o struggimento nascosti dietro le apparenze e di quell’ombra approfittò anche Roberto Rossellini che nello stesso anno la diresse come protagonista assoluta in Vanina Vanini.
Il film fu un flop critico, soprattutto perché la critica all’epoca non riuscì ad accettare una trasformazione così netta per un’attrice, considerata allora di seconda fascia, ma tanto in Italia, quanto soprattutto nella Francia delle co-produzioni, il suo essere icona capace di rompere le barriere della sua iconicità era piuttosto apprezzato, anche in film d’azione o noir come Le avventure di Arsenio Lupin e soprattutto Asfalto che scotta, finché non arrivò Federico Fellini, appunto, nel 1964.
Al di là della burrascosa relazione sentimentale col regista, visto che la sua vita romantica è davvero degna di un romanzo, tra mariti (come il produttore Moris Ergas, suo Pigmalione) e amanti, intrighi politici da Craxi in giù e vicende giudiziarie, il maestro riminese fece dell’attrice il simbolo stesso del suo immaginario erotico, una versione più bonaria e casalinga della seduzione un po’ inquietante di Anita Ekberg, eppure perturbante perché immersa nel sogno, nell’incarnazione di un’ideale, volatile e concreta al tempo stesso, specie nella tripla incarnazione – Susy, Iris, Fanny – con cui si contrappone a Giulietta Masina nel film del ’65.
Due facce opposte della medaglia: Sandra Milo come donna vera, fragile ma consapevole e non doma nel mondo femminile di Pietrangeli, oppure come canone di un immaginario, a misura dello sguardo maschile ma dirompente abbastanza da emanciparsi da lui. Milo, la spaesata e frivola Sandrocchia, padroneggiava con classe e vigore entrambe quelle facce. La sua carriera si interrompe di fatto in modo brusco nel ’68, per badare ai suoi figli e alla famiglia. Ci ritornerà solo dieci anni dopo per cameo più o meno riusciti in film più o meno dimenticati, nel frattempo farà molta tv (Piccoli fans soprattutto) in cui mostrare il lato rassicurante della sua immagine.
Seppure l’immaginario popolare dei nostri tempi la associa proprio a quel periodo, allo scherzo telefonico che la fece scappare via in lacrime (“Chi Ciro?”) e alle comparsate tv spesso sopra le righe, Milo è una delle immagine più misteriose del cinema italiano anni ’60, quello che si tolse dalle maglie del neorealismo dopo quelle del cinema di regime, e sperimentò con il lavoro stratificato sulle forme e gli immaginari.
Sandra Milo era un’immaginario a sé, sfuggente per quanto all’apparenza di facile identificazione. Parafrasando Pasolini che parlava di Fellini, ella danza. Non ha mai smesso di farlo, sappiamo che non smetterà mai.
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