Fioccano sulla stampa i titoli sulla sanità al collasso. L’Italia è spesso il Paese delle grandi ambiguità. Come quando si confronta da un lato la nobiltà dei princìpi, la salute come diritto fondamentale, e dall’altro la concretezza dei dati, la spesa italiana pro capite significativamente inferiore a quella di Francia e Germania. Oppure si parla della centralità della persona nel Sistema sanitario nazionale (SSN), ma il recupero delle liste d’attesa è decisamente lontano e obbliga le persone, in ansia per la loro salute, a ricorrere alla spesa privata. Risale a poco più di due settimane fa la Relazione presentata dalla Corte dei Conti, con quel linguaggio rigorosamente quantitativo che esige osservazioni concrete e giudizi molto precisi. Soprattutto davanti alle preoccupazioni di un Paese che invecchia con una curva demografica che appare sempre più come una piramide rovesciata, in un equilibrio sempre più precario. La cronicità, la disabilità e la fragilità sono ormai diventati fattori dominanti in sanità nella programmazione economico-finanziaria di un sistema sanitario che sta velocemente evolvendo nella direzione di sistema socio-sanitario.
Sanità, tra spesa pubblica e spesa privata
Le persone percepiscono sempre più che il nostro sistema è giunto ad una svolta pericolosa; ne misurano le insidie quando vanno a prenotare un esame diagnostico, una visita specialistica, un intervento chirurgico e debbono prendere atto del tempo necessario per ottenere un appuntamento che considerano determinante per la loro qualità di vita. Ma la frustrazione esplode quando toccano con mano che la stessa prestazione diventa facilmente accessibile se la si fa a spese proprie. Perché allora significa che macchine e strutture ci sono, i medici anche, con la loro riconosciuta competenza, ma la disponibilità è subordinata al fatto che la prestazione sia a loro carico. Quasi due anni per una cataratta, ma pochi giorni se è a carico del paziente o se è coperta da una assicurazione privata.
Il paziente sa poco della sanità a livello di gestione del sistema, di investimenti a medio e lungo termine; non sa quanto guadagnano i medici né quanti siano. Sa solo che se paga, ottiene, altrimenti i tempi si dilatano e la sua condizione nel frattempo può decisamente peggiorare. La sua sensazione è ampiamente confermata dai numeri: la spesa sanitaria pubblica italiana è di circa 131 miliardi, contro i 423 miliardi della Germania e i 271 della Francia. La spesa italiana pro capite è la metà di quella tedesca, in compenso la spesa privata per la sanità sostenuta dalle famiglie italiane è del 21,4%, in Francia è meno della metà, cioè l’8,9% del valore totale e in Germania arriva all’11%. Quello che lo Stato italiano in teoria sembra risparmiare è in realtà una pesante soprattassa per i cittadini italiani, che vedono assottigliarsi sempre più le loro risorse, tra l’inflazione che tocca tutti i beni di largo consumo e spese considerate non dilazionabili di chi ha cuore la propria salute e quella delle persone care.
Caos sanità, lo spartiacque del 2008 e la riduzione del personale
Il personale sanitario è aumentato, dopo anni di tagli e di blocchi, ma non è ancora in grado di coprire esigenze oggettive e soggettive del sistema. L’anno chiave per interpretare questa ennesima ambiguità è il 2008: anno dalla grande crisi a cui sono seguiti, anno dopo anno, tagli alla sanità che sono stati presentati alla pubblica opinione come una razionalizzazione del sistema, una sua migliore riorganizzazione, fino all’esplosione della pandemia, con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Solo allora, a fronte del moltiplicarsi dei bisogni di cura e di assistenza della popolazione, è ricominciata la crescita del personale, che però non ha ancora raggiunto i livelli del 2008. Emblematica la cifra indicata dalla Corte dei Conti: ai 38,5 mld del 2008, corrispondono oggi 38,3 mld, con una persistente riduzione in termini reali. La spesa sanitaria è salita a 131,1 miliardi di euro nel 2022, dai 127,5 del 2021 e dai 122,7 del 2020 dopo essere stata ferma a 110 mld nei sette anni precedenti.
Tra il 2008 e il 2023 ci sono 15 anni in cui la riduzione del personale ha creato un forte disagio tra professionisti che in parte sono stati costretti ad emigrare, non solo all’estero dove sono molto apprezzati e molto meglio retribuiti, ma, pur restando in Italia, molti si sono visti obbligati a migrare dal pubblico al privato. E per chi è rimasto nelle strutture pubbliche si è moltiplicato il lavoro, fino a raggiungere condizioni usuranti non accettabili. L’Italia ha un tasso di medici praticanti pari a 4,1 per 1.000 abitanti, superiore alla media OCSE che è di 3,7, ma un numero insufficiente di infermieri: 6,2 a fronte di 9,2, e un numero di posti letto ospedalieri, pari a 3,1 per 1.000 abitanti, inferiore al dato medio OCSE, pari a 4,3.
In ogni caso medici ed infermieri impegnati nel sistema pubblico si sentono spesso sfruttati senza sentirsi adeguatamente remunerati né sul piano economico né sul piano della stima e del riconoscimento formale, che si traduce in un maggiore coinvolgimento nei processi decisionali che li riguardano. Sulla salute e sulla qualità di vita del personale medico-infermieristico è stato possibile ottenere un altro risultato significativo: il tasso di mortalità prevenibile in Italia (91 per 100.000 abitanti) è decisamente inferiore alla media OCSE (pari, rispettivamente, a 158 e 79 per 100.000 abitanti). Anche la qualità dell’assistenza primaria evidenzia valori nettamente migliori per l’Italia: 214 ricoveri per infarto acuto del miocardio ogni 100.000 abitanti, a fronte, in media, di 463 nei paesi OCSE. Decisamente negativo risulta invece il consumo, eccessivo, di antibiotici.
La diversità regionale: come cambia la sanità?
Numeri alla mano, la speranza di vita scende nel Mezzogiorno e nelle Isole, mentre sale al Nord. C’è una causalità diretta tra stili di vita e situazione di gravi multi-cronicità tra le persone di oltre 75 anni; al Sud risulta del 66,5% rispetto a una media nazionale del 49%. La situazione di multi-cronicità grave risulta in media di 12 punti superiore nel Mezzogiorno rispetto alle Regioni del Nord e di 8-10 punti al Centro. Mancano le strutture di riabilitazione, sia come posti letto che come centri attrezzati sul piano psico-fisico.
È evidente che i costi per il personale e per l’aggiornamento tecnologico, uniti ai forti cambiamenti epidemiologici e demografici, si sono scontrati con oggettive difficoltà della finanza pubblica, per cui il SSN negli ultimi 15 anni è stato fortemente sotto-finanziato, anche se attualmente si notano i segni di una positiva rivalutazione. Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico, soprattutto non possono farne a meno le classi economicamente più deboli. Chi può sottoscrive una assicurazione integrativa, ma non tutti sanno come e quando farla e spesso non possono proprio permettersela. C’è un indebitamento per motivi di salute che crea grave sofferenza a livello familiare, soprattutto perché riguarda gli anziani, per i quali il livello dei servizi è decisamente inadeguato. La crisi del SSN è più evidente sia per la crescente difficoltà di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, sia per l’aumento delle diseguaglianze regionali. Alla crisi del SSN si somma la crisi della famiglia, la sua frammentazione, l’emigrazione dei giovani in cerca di lavoro e la ridotta capacità di acquisto di lavoratori troppo spesso precari.
Certo, servono più risorse, ma deve esserci una maggiore efficienza nel loro utilizzo e una maggiore appropriatezza a livello diagnostico e terapeutico. Nello stesso tempo occorre riconoscere che l’obiettivo dello spostamento di una serie di servizi dall’ospedale al territorio è ben lontano dall’essere raggiunto. Il DM 77 ma anche la legge 33/2023 sono come le promesse incompiute in un sistema che ne avrebbe urgente bisogno. La gente continua a preferire l’ospedale all’evanescenza dei servizi territoriali; affolla i Pronto soccorso e non ha ancora capito cosa siano le Case di Comunità, quali servizi offrano e soprattutto chi ne sia responsabile. Non è affatto passata una cultura della assistenza domiciliare, anche per la complessità burocratica che spesso esige. Si dovrebbe investire molto di più, in modo strategico, nella cultura della prevenzione, individuale e collettiva, attraverso l’educazione alla salute dei cittadini. Ma almeno altrettanto si dovrebbe investire nei servizi di riabilitazione, per garantire qualità di vita agli anziani e prolungare il più possibile la loro autosufficienza.
Ma tutto ciò resta ancora un pio desiderio: per mancanza di progettazione strategica più ancora che per mancanza di fondi, nonostante il PNRR abbia avuto questo obiettivo specifico fin dal primo momento… Comunque sia però tutti, a cominciare dal Governo, debbono aver ben presente che del sistema sanitario nazionale, di quello pubblico per intenderci, non si può proprio fare a meno.
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