Sarebbero più di 5mila gli operatori sanitari contagiati dal coronavirus, 31 i medici deceduti fino a oggi. I medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, dove si combatte la battaglia più dura, hanno scritto una lettera aperta al New England Journal of Medicine, lanciando un grido di allarme che nel nostro paese sembra non sia stato ancora recepito: “Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo già oltre il punto del collasso: 300 letti su 900 sono occupati da malati di Covid-19. Più del 70% dei posti in terapia intensiva sono riservati ai malati gravi di Covid-19 che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere (…) Il personale sanitario è abbandonato a se stesso mentre tenta di mantenere gli ospedali in funzione. Fuori dagli ospedali, le comunità sono parimenti abbandonate, i programmi di vaccinazione sono sospesi (…) Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza”. Come si è arrivati a tutto questo? Per il professor Raffaele Pugliese, ex primario di chirurgia generale d’urgenza dell’azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano, “c’è stato un grave errore di sottovalutazione dell’emergenza coronavirus sin dall’inizio. Bastava osservare quello che accadeva in Cina. Un virus con una capacità infettiva fortissima, bastava aver osservato per capire che era una situazione drammatica. Come ogni virus, e specialmente oggi con la globalizzazione in atto, ha viaggiato con gli uomini, è evidente che il driver del virus è l’uomo. Era una evidenza concreta che questo virus sarebbe arrivato dappertutto. Il problema era mettere in atto misure per contenerlo”. Cosa che per il professor Pugliese non è stata fatta, anzi si è ridicolizzata e nascosta la portata infettiva, da parte di esponenti della politica e della sanità, “dicendo che in Italia tutto era sotto controllo e che il virus non avrebbe mai attecchito da noi”.



Professore, oltre ai tanti pazienti, anche il personale sanitario sta pagando un prezzo altissimo. Come si è arrivati a questa situazione?

Sono oggi in pensione, ma ho lavorato negli ospedali per 45 anni e ho diretto il dipartimento polichirurgico di Niguarda per circa 20 anni. Ancora oggi osservo con attenzione quanto accade. Sì, la situazione nel mondo è molto grave, in particolar modo in Lombardia. Notiamo un alto numero di decessi e una percentuale elevata di personale addetto alle cure che si ammala di Covid-19; anche questi hanno pagato un contributo notevole in vite umane. Lei mi chiede di spiegare come si è arrivati a questa situazione? Abbiamo potuto vedere tutti nel mese di gennaio quando la Cina ha reso ufficiale l’epidemia da coronavirus, che probabilmente era iniziata già a novembre, quale fosse la situazione di Wuhan, come in poco tempo gli ospedali e le terapie intensive erano state riempite, tanto che si era reso necessario costruire una nuova struttura ospedaliera che potesse accogliere fino a 2mila pazienti. Inoltre, abbiamo visto che tutta la città di Wuhan e tutta la regione dello Hubei sono state isolate dal resto della Cina e i cittadini confinati nelle case per poter contenere l’epidemia. Questo è stato l’inizio che ci ha portati a questa situazione.



Che cosa avete intuito?

Che eravamo davanti a un nuovo virus che passando dall’animale era riuscito a mutarsi e diventare capace di infettare l’uomo. Questo virus mostrava una capacità infettiva elevatissima, e poteva presentarsi con pochi sintomi o anche in modo asintomatico, ma in circa il 20% delle persone si presentava con sintomi gravi o gravissimi. In questi casi con una percentuale di mortalità elevata. La percezione che si ricavava era che avremmo potuto aspettarci, in un tempo più o meno lungo, di dover affrontare questa epidemia. Questo perché vivendo in un mondo globalizzato ed essendo l’uomo il portatore del virus, gli spostamenti umani avrebbero portato facilmente questo virus in ogni parte del mondo.



Dunque la certezza che il virus sarebbe giunto fra noi era inevitabile?

Questo non era solo un rischio ipotetico, bensì una possibilità quasi certa, tanto che le nazioni di tutto il mondo ne hanno avvertito il pericolo e hanno incominciato a ragionare circa la possibilità di contenerne la diffusione. L’Italia per mitigare il fenomeno aveva deciso di bloccare i voli dalla Cina. Ma poiché il resto dell’Europa non aveva attuato la stessa iniziativa, i viaggiatori dalla Cina, sbarcando in altri paesi europei si potevano poi facilmente trasferire in Italia. Quindi, purtroppo, il divieto di sbarco degli aerei dalla Cina si è dimostrato inutile. Il contenimento avrebbe dovuto prevedere la quarantena per tutti gli arrivi dalla Cina di qualsiasi nazionalità.

Misure che non sono state prese?

In effetti le misure di contenimento reali ed efficaci in quella fase non sono state adottate in Italia né in nessun’altra nazione europea. E il trasferimento dalla Cina per business o anche per incontri parentali, visto erano anche i giorni del Capodanno cinese, aveva aumentato la possibilità che il virus si diffondesse anche in Italia, come poi è avvenuto.

A quel punto cosa andava fatto?

Il premier Conte ha dichiarato il 31 gennaio uno stato di emergenza che potrebbe protrarsi per sei mesi, fino al 31 di luglio. Ci si sarebbe potuti aspettare la costituzione di una unità di crisi, che potesse stabilire un programma capace di prepararci ad affrontare l’emergenza. Dico questo perché non era difficile per i ministeri avere i dati di quella che era la situazione e le risorse disponibili nelle varie Regioni d’Italia, sia in termini di dotazioni adeguate alla sicurezza dei cittadini e dei sanitari, sia in termini di posti letto e disponibilità rianimatorie. Non mi risulta che ci sia stato allora, dopo la dichiarazione di emergenza, una presa d’atto e un’attività che portasse in tempi brevi a essere pronti alla battaglia.

Ma un virus così grave era lecito aspettarselo?

Di fatto, anche se nessuno se lo aspettava, non si poteva escluderne la possibilità. Già in anni precedenti c’erano state delle epidemie di coronavirus quali la Sars e la Mers. Anche questi sono virus che dall’animale hanno avuto la capacità di infettare l’uomo. Sono state due epidemie che non avevano la capacità infettiva di quello attuale, ma sicuramente una mortalità molto elevata. Possiamo dire che il mondo, nonostante la possibilità di nuove epidemie da nuovi virus, non si è preparato a tali eventi, perché spesso si preferisce vivere censurando le avversità, come del resto vediamo anche in Italia: pur sperando che i dissesti idrogeologici non risolti non riaccadano, essi poi si ripresentano inesorabilmente. Quindi è vero, nessuno lo aspettava, ma quando la Cina ha dichiarato l’epidemia, il fatto era lì di fronte ai nostri occhi, dovevamo solo osservare, farci provocare, magari per un istante farci spaventare e quindi, come uomini razionali e capaci di cercare risposte, rapidamente metterci in azione. Ma può accadere facilmente di essere distratti nell’osservazione e quindi incapaci di cogliere tutti i fattori che una circostanza ci impone, forse anche perché preoccupati di valutare vantaggi e svantaggi che la propria parte politica può avere da ogni azione invece che andare oltre l’interesse personale e cercare di riunirci tutti per rispondere alle necessità del bene comune. In questo caso, difendere la salute dei cittadini da un nemico comune: il coronavirus.

Ci sono stati anche studiosi, scienziati e primari che hanno affermato che era poco più di una influenza come tutte le altre e che in Italia non avrebbe mai attecchito. È colpa della scienza o della politica?

Non voglio fare polemiche, perché col senno di poi diventa facile. Però per rispondere a quello che è avvenuto nella prima fase, in cui la comunicazione era ricca di opinioni diversificate e in grado di confondere, posso affermare che nella mia esperienza più che quarantennale su molte questioni mediche i pareri sono sempre molteplici, finché un’evidenza non si afferma con forza assoluta. Questo deriva dal fatto che la medicina non è una scienza esatta e in particolar modo quando si incontra l’ignoto è richiesta molta umiltà e capacità di osservazione. Prima di dare giudizi consolatori o allarmanti occorre avere certezze assolute.

Ha avuto la meglio la voglia di imporsi rispetto al bene comune?

Ci si sarebbe dovuto riferire in modo più rigoroso a quanto si poteva osservare in Cina e in Corea del Sud. Noi abbiamo visto già il 19 febbraio alcuni esperti dire che era più facile morire colpiti da un fulmine che di coronavirus e il 21 febbraio il presidente del Consiglio Conte affermare che si stava facendo allarmismo e che non c’era in realtà pericolo imminente di coronavirus. Alcuni poi invitavano ad uscire per strada e il segretario del Pd sui Navigli mostrava il suo coraggio. Tutto questo è segno di superficialità e nei politici di mancanza di prudenza.

E quindi?

Oggi abbiamo in Regione Lombardia una situazione drammatica con un numero di malati ricoverati in terapia sub intensiva e in terapie intensive notevole e con un elevato prezzo in vite umane. La sanità lombarda è stata rapidamente trasformata per l’accoglienza e la cura dei pazienti coronavirus. Mi preme sottolineare il sorprendente coraggio e la dedizione che medici di medicina generale, medici e infermieri degli ospedali stanno mostrando con una abnegazione che testimonia fin dove può arrivare il cuore dell’uomo quando sono richiesti sacrifici per il bene di tutti. Però, devo dirlo, sono soldati in trincea inviati a combattere la battaglia senza avere le dotazioni di sicurezza sufficientemente adeguate, eppure combattono lo stesso la battaglia. E spesso, sono certo, sono anche poco ascoltati dai loro generali.

Per quanto riguarda la questione dei tamponi, qual è la sua opinione?

Vorrei sottolineare un aspetto che ritengo molto importante: all’inizio dell’epidemia in Lombardia si era deciso di eseguire i test diagnostici a tutti i pazienti sintomatici e a coloro che ne erano venuti a contatto. Ovviamente questo incrementava i numeri degli infetti rilevati. Nel paragone con quello che facevano altre nazioni, la Germania o altri, sembrava che l’Italia facesse una brutta figura. Addirittura, altrove i morti di polmonite venivano classificati come influenze per non traumatizzare i mercati. Questo la dice lunga su come l’osservazione della realtà può essere prevaricata dal giudizio di competizione finanziaria tra le diverse nazioni, che si dimostrano tutte sovraniste. Da quel momento anche la Lombardia ha iniziato a ridurre drasticamente i test, non considerando la necessità di scovare gli infetti asintomatici. Si riteneva infatti sufficiente la pratica di una quarantena diffusa.

Lei ritiene che la quarantena non sia sufficiente?

Ritengo che le misure prese per la quarantena vadano assolutamente rispettate, ma la situazione di oggi ci dice che il rischio infettivo rimane ancora alto, soprattutto nelle categorie che sono chiamate a non applicare l’isolamento perché con il loro lavoro devono rispondere a bisogni imprescindibili per i cittadini. Categorie come il personale medico e infermieristico, di assistenza nelle case di riposo e tutti coloro che lavorano nella catena alimentare e nella produzione di dispositivi di protezione individuale. Per sostenere la loro sicurezza e quella delle persone a cui forniscono i loro servizi bisogna eseguire ripetutamente i tamponi per poter individuare anche i contagiati asintomatici. Mi fa specie che la Lombardia discuta ancora se applicare o no diffusamente e ripetutamente questa procedura diagnostica. Non mi pare che possa esserci una motivazione scientifica per rinunciarvi e nel caso andrebbe spiegata. La mancanza di una decisione in questo senso, per il pericolo che può comportare, non dovrebbe essere tollerabile e dovrebbe essere considerata una grave indecisione delle istituzioni.

(Paolo Vites)

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