La sanità calabrese resta un problema per i governi di ogni forma e colore. Nel 2007, dopo la tragica morte dei minori Federica Monteleone, Flavia Scutellà ed Eva Ruscio, dovuta a gravi errori medici, la Calabria finì in emergenza sanitaria, ordinata dall’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi. Nell’aprile 2008 una commissione ministeriale d’inchiesta formalizzò le cause della malasanità della Calabria: “condizionamento ambientale” a opera della criminalità, grave dipendenza dei manager dalla politica e insane prassi gestionali. Nel 2020 queste “patologie” appaiono cronicizzate.



Lo conferma il commissariamento per infiltrazioni mafiose delle aziende sanitarie di Reggio Calabria e di Catanzaro. Tra l’altro lo dimostra la manifesta, recente violazione delle norme per la nomina di vertici dirigenziali dell’Azienda ospedaliera e dell’Asp di Cosenza, che non ha approvato il consuntivo del 2018 e che, come ha riassunto la Corte dei conti, sprofonda tra sprechi, debiti, perdite e contenziosi milionari, con un deficit di oltre mezzo miliardo. 



La prognosi non è dissimile per l’Asp reggina. Infatti da lì evaporarono 400 milioni di euro, con fatture liquidate più volte e il tentativo, fallito, di ricostruire i movimenti di cassa tramite esperti, uno dei quali morto per improvviso arresto cardiaco, alquanto sospetto. Nei corridoi della stessa azienda aleggia lo spettro della ’ndrangheta, raccontano a volume impercettibile alcuni funzionari. Nel mentre “i commissari prefettizi chiamati a dirigerla si vedono di rado” – tuona il sindacalista Uil Nuccio Azzarà – e il delegato governativo, Saverio Cotticelli, in pensione da generale dei carabinieri, ne respinge la fumosa proposta di dissesto finanziario dell’ente, opzione introdotta dal famigerato “decreto Calabria”, che ha peggiorato l’andazzo, nonostante l’enfasi smodata dell’ideatrice, l’allora ministra Giulia Grillo. 



Nel frattempo il disavanzo sanitario regionale cresce, al netto delle rassicurazioni verbali della struttura commissariale del governo, bocciata sonoramente – si legge sulla stampa – da un gruppo di controllori ministeriali che a Cotticelli e alla vice, Maria Crocco, avrebbero rimproverato il mancato raggiungimento degli obiettivi. In effetti la rete dell’assistenza ospedaliera è rimasta aggiornata al 2016 e con l’emergenza Covid, impropriamente affidata alla presidente della Regione Calabria, Jole Santelli, sono stati scombinati reparti, servizi essenziali e percorsi terapeutici. Se non bastasse, primari validissimi sono fuggiti dalla Calabria e nel rapporto tra Regione e sanità privata pesano i condizionamenti, i conflitti di interesse di pezzi della politica, che hanno affari nelle cliniche convenzionate.

In questo disordine, legittimato dal silenzio imperante, restano chiusi gli ospedali periferici di Praia a Mare e Trebisacce, che dovevano essere riaperti sulla base di datate sentenze definitive. Ancora, non esiste neppure lo scheletro dei tre/quattro nuovi ospedali che dovevano essere realizzati tra la Piana di Sibari e quella di Gioia Tauro. E non è chiaro come siano stati utilizzati i quasi 180 milioni che lo Stato destinò a riguardo. 

Il ritratto degli ospedali calabresi si trova a pagina 58 delle conclusioni della commissione ministeriale del 2008. “Molti degli edifici – è riportato nel documento – sono ormai datati e taluni di essi addirittura vetusti”, in “condizioni di estremo degrado”, in “un clima di indifferenza e rassegnazione da parte degli operatori, quasi integrati nella situazione”. Alle pagine 59 e 60, poi, viene censurato il “sottoutilizzo di reparti ospedalieri o anche di intere strutture”, con l’“esempio paradigmatico” dell’“Azienda Ospedaliera Universitaria Mater Domini di Catanzaro”, beneficiaria – è annotato alla pagina 86 – di “protocolli d’intesa eccessivamente sbilanciati a favore dell’Università”, che “condizionano le scelte organizzative fondamentali della Mater Domini”, in cui: non si fa emergenza–urgenza, le scuole di specializzazione universitaria non hanno l’accreditamento definitivo e manca il Pronto soccorso, a fronte di un corrispettivo regionale che dal 2012 ad oggi ha superato di oltre 100 milioni l’importo massimo consentito. 

La sanità calabrese è in piano di rientro, ma codesto paradosso è talmente netto che non lo vede il governo, non lo vedono i suoi commissari sul posto e, soprattutto, non lo vede la presidente Santelli, o almeno nessuno dei suoi gliel’ha rappresentato. La logica è quella del “campa cavallo”, dato che il Consiglio regionale ha disposto per legge, impugnata dal governo, l’“integrazione” tra l’ospedale pubblico e il policlinico universitario di Catanzaro, creando un pasticcio normativo che in sostanza permetterà al secondo di beneficiare ancora a lungo del corrispettivo regionale fuori misura, naturalmente in cambio di nulla.

All’avvio del piano di rientro nel 2010, il debito della sanità era in Calabria di 2,2 miliardi, di cui 2 coperti – con un mutuo trentennale di 900 milioni presso il Tesoro e 1,1 miliardi prelevati dal Fondo per le aree sottoutilizzate – e il resto da azzerare con tagli e riassetti. Oggi il disavanzo sanitario calabrese sfonda i 200 milioni e, a proposito dei Lea, prevenzione oncologica, assistenza territoriale e alle donne incinte sono un miraggio vero e proprio, voci di una retorica trasversale che rivive a ridosso di tutte le elezioni. L’emigrazione sanitaria pesa per circa 300 milioni annui sulle casse regionali e la Calabria riceve, a causa dei criteri vigenti di ripartizione del Fondo sanitario, circa 150 milioni in meno all’anno rispetto a quanto spende per la cura dei malati cronici. È qui che occorre intervenire sul piano legislativo, perché il travagliato rientro dal disavanzo sanitario calabrese, mai avvenuto, ha risentito di questa imperdonabile diseguaglianza e in subordine di sprechi, ruberie, conflitti tra poteri pubblici, incapacità e complicità dirigenziali, mancanza di programmazione e della volontà politica di imporre legalità, buone pratiche, trasparenza e meritocrazia.

Se non si troverà un equo indirizzo sulla redistribuzione delle risorse statali, sulla perequazione e sulla destinazione dei fondi europei per il settore sanitario, la Calabria affonderà completamente nelle sabbie mobili. Già ora vi è immersa sino al collo, non potendo assumere le oltre 2000 figure, tra medici, infermieri e Oss, necessari a garantire l’assistenza pubblica ordinaria. Viceministro Sileri, se ci sei, batti un colpo. Nella speranza che il ministro della Salute legga e finalmente si (s)muova.