Per quanto riguarda la sanità, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha previsto la realizzazione di strumenti (case di comunità, ospedali di comunità, centrali operative territoriali) il cui obiettivo dovrebbe essere il ridisegno dell’assistenza sanitaria territoriale. Successivamente il DM 77 del 23 maggio 2022 (Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo della assistenza territoriale nel servizio sanitario regionale) ha disegnato le caratteristiche standard degli strumenti previsti dal PNRR, e da ultimo AGENAS (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) attraverso un gruppo di lavoro creato ad hoc ha prodotto nel mese di giugno 2024 il documento Linee di indirizzo per l’attuazione del modello organizzativo delle case della comunità hub.



Sorvolando sul fatto che le iniziative previste dal PNRR rappresentino effettivamente (o non rappresentino, come pensa chi scrive) una soluzione ai problemi dell’assistenza sanitaria territoriale, ha senso interrogarsi attorno alla necessità ed utilità di tutte queste attività finalizzate alla identificazione di standard uniformi per case di comunità ed altre iniziative, anche alla luce delle analoghe esperienze che hanno interessato il comparto ospedaliero (DM 70/2015).



Il problema è semplice e può essere rappresentato in questo modo (prendiamo come esempio le case di comunità): posto che si voglia dare forma alle case di comunità in tutto il Paese, quali sono gli elementi che è opportuno (inopportuno) che tutte posseggano e quali sono invece le peculiarità (se ce ne sono, come pensa chi scrive) che debbono essere lasciate alle realizzazioni locali? La domanda segue lo schema che vige in sanità nei rapporti tra lo Stato e le Regioni: allo Stato compete la definizione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), alle Regioni l’organizzazione della loro erogazione.



Proviamo a tradurre questo approccio con riferimento all’esempio delle case di comunità.

Un conto è identificare e definire obiettivi sanitari e di salute che possono essere poi misurati, come i pazienti cronici presi in carico, le valutazioni multidimensionali prodotte, i piani di cura individuali (PAI) predisposti, i medici di base coinvolti, i professionisti specialisti (ambulatoriali, ad esempio) a disposizione, gli esiti di salute da raggiungere, gli screening da effettuare, gli obiettivi farmaceutici, i pazienti da assistere a domicilio, le prestazioni da erogare, e così via, per una lunga lista di attività che deve coinvolgere tutti gli attori sanitari e socio-sanitari di un territorio, pubblici e privati accreditati, profit e non profit, strutturati e volontari; altro conto è dire che la casa di comunità (che sia “hub” o “spoke” poco importa) deve avere x medici, y infermieri, z personale di supporto, k strumenti ed n locali. Nel primo caso l’accento è sui livelli di assistenza da erogare ed i risultati (anche organizzativi) da raggiungere; nel secondo caso l’interesse è solo alla struttura organizzativa, ciò che di fatto sta avvenendo in prevalenza con la rimessa a nuovo di muri e locali e con le difficoltà di reclutamento del personale.

È vero che le attività sorgono e stanno in piedi se si appoggiano a risorse, spazi, persone, ma la tipologia e quantità di queste risorse non può essere decisa da uno standard nazionale che sarà necessariamente astratto, generale, e rigido, ma deve innestarsi in un territorio concreto e specifico, ricco di particolarità e di opportunità da sfruttare (o di disopportunità e difetti da superare), deve rispondere ad una adeguata analisi dei bisogni delle persone del territorio cui si rivolge, adottare per quanto possibile il criterio della prossimità di cura e della sussidiarietà nel coinvolgimento delle comunità locali e delle organizzazioni dei pazienti, etc.

L’assistenza territoriale non ha bisogno di belle (perché nuove o rinnovate) casette di mattoni, tutte (circa) uguali, ma la realizzazione del PNRR richiede la costruzione di case di comunità, strutture al servizio della comunità locale, case che saranno necessariamente diverse perché diverse e specifiche, peculiari, sono le caratteristiche delle comunità cui si rivolgono, ma con degli obiettivi sanitari e di salute comuni, seppure diversi nelle modalità realizzative.

È pensabile che la casa di comunità di un territorio dell’Appennino tosco-emiliano sia (quasi) uguale alla sua analoga posizionata nel centro di Bologna o di Firenze? E quella di Torino uguale (sempre quasi) a quella di Napoli? O quelle delle valli alpine uguali a quelle dei territori di mare? Certamente uguali devono essere gli obiettivi (di salute e sanitari), cioè i LEA, ma ciascuno li dovrà tradurre secondo le specificità e le esigenze del proprio territorio, accettando poi di essere valutato per quello che ha (o non ha) fatto.

E su quest’ultima considerazione si innesta un elemento di criticità che provo a rappresentare attraverso due esempi. Il primo: le Regioni che secondo le valutazioni effettuate dal ministero della Salute non erogano i LEA, sono da sempre le stesse, eppure nulla sta cambiando. Il secondo: gli standard stabiliti dal DM 70/2015 per l’assistenza ospedaliera (salvo qualche raro esempio) sono disattesi in tutte le Regioni, eppure (dopo quasi 10 anni) nulla sta cambiando. Perché? Ci saranno di sicuro tante e diverse ragioni, ma una ragione fondamentale è legata alla assenza di conseguenze per chi non si adegua alle indicazioni: serve valutare, quando non lo si fa (vedi DM 70/2015); ma non basta valutare (vedi LEA) se poi non si adottano azioni e percorsi di modifica (non necessariamente punitivi, come purtroppo si tende sempre a pensare nei confronti di atteggiamenti inadeguati).

Nel caso delle case di comunità (cacofonia permettendo), e delle altre iniziative previste dal PNRR, abbiamo l’opportunità di trovarci all’inizio di un percorso per il quale possono essere individuati e definiti tutti gli strumenti di contorno che servono: metodi e strumenti necessari per la valutazione, ma soprattutto azioni e percorsi di aiuto per chi è in difficoltà. Senza questi interventi i chili di carta utilizzati per scrivere astratti, generici e tutto sommato inutili standard uniformi servono solo a rinverdire quelle “raccolte della carta” che qualche anno fa si facevano al fine di raccogliere fondi per iniziative in genere di solidarietà, raccolte che gli strumenti elettronici di oggi hanno ormai confinato nel dimenticatoio.

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