A livello sistemico, dopo più di un anno di pandemia, “la situazione è invariata: abbiamo ancora reparti Covid di carattere emergenziale”. E per Giancarlo Cesana, professore ordinario di Igiene e sanità pubblica dell’Università Bicocca in pensione, le carenze restano tutte sul tappeto: “Prima di tutto va ricordato che la sanità italiana dispone di poche risorse”. Poi, bisogna mettere mano alla “medicina territoriale, perché i medici curanti non fanno adeguato filtro”. In terzo luogo, occorre far sì che “nei reparti di medicina interna siano presenti le terapie intensive, come succede all’estero, e non nelle rianimazioni, che rappresentano l’ultimo livello di intervento per i casi più gravi”.



Infine, alla luce del fatto che altre pandemie arriveranno, non si può non rispondere alla domanda: di quanti posti in terapia intensiva abbiamo bisogno?”. Cesana, poi, respinge l’accusa che l’Italia abbia ospedalizzato troppo i pazienti Covid (“Quanto a intasamenti di pronto soccorso, reparti ospedalieri e terapie intensive, è successo più o meno quello che è poi successo anche in altri paesi”), teme un ritorno di fiamma delle tendenze centralistiche in materia di sanità e difende invece il modello lombardo, di tipo sussidiario, che “funziona egregiamente”, anche se “sono venute a galla tutte le debolezze e le fragilità di una riforma sanitaria mai compiutamente realizzata”.



A 15 mesi dall’insorgere del coronavirus si può tracciare un bilancio di come è stata affrontata e gestita l’epidemia dal punto di vista sanitario?

L’affronto dell’emergenza dell’epidemia è stato sostanzialmente volontaristico, basato soprattutto sulla dedizione del personale. E dal punto di vista sistemico la situazione, ancora oggi, è invariata: abbiamo ancora reparti Covid di carattere emergenziale.

Che cosa non ha funzionato?

Prima di tutto, va ricordato che la sanità italiana dispone di poche risorse. In termini di spesa pro capite è meno della metà di quella della Germania, un po’ più della metà di quella della Francia e del Regno Unito. Anzi, se guardiamo al trend della spesa, mentre prima eravamo sopra la media europea, ora stiamo andando verso i livelli di paesi come la Bulgaria e la Romania. Questo spiega tutte le discussioni sul prendere o meno i fondi del Mes, che oggi sembrano non essere più necessari.



La medicina del territorio è stata il tallone d’Achille della risposta alla pandemia e tuttora non è in grado di gestire a casa e precocemente un numero adeguato di pazienti. Perché?

La medicina territoriale è la prima carenza che la pandemia ha portato alla luce, perché i medici curanti non fanno adeguato filtro. Accanto a medici che si sono volontaristicamente impegnati, a tal punto che diversi sono morti per aver contratto l’infezione, altri sono stati meno presenti, perché – dicevano – sovraccaricati da un punto di vista burocratico e sprovvisti di sistemi di protezione. La medicina territoriale è il primo ambito da sistemare, ma cambiare non è semplice, perché la situazione si trascina ormai da decenni.

Rilanciare la medicina di base è però un dovere. Come?

La medicina territoriale deve essere messa in grado di fare diagnosi, dotando i medici di adeguati strumenti di laboratorio per l’accertamento delle patologie, e di fare terapie. Questo presuppone che l’attività venga svolta in équipe e possibilmente 24 ore su 24. In Germania, per esempio, la medicina territoriale funziona già così.

Al di là dei soldi necessari, cosa manca per compiere questo passo?

Occorre rimettere in discussione le convenzioni con i medici di base: si va avanti con un regime di carattere libero professionale o, dovendo assolvere compiti che assegna loro il Ssn, questi medici devono diventare dipendenti? C’è una complessa trattativa sindacale da impostare, altrimenti non si va avanti di un passo.

Ci sono altri punti deboli del sistema italiano che la pandemia ha portato a galla?

I reparti di medicina interna trasformati, in toto o in parte, in reparti Covid. Mentre i nostri reparti di medicina interna, ormai da anni, sono abituati ad affrontare il paziente cronico, visto che le cronicità, data l’anzianità della popolazione, sono diventate il primo problema, il paziente Covid è un acuto, da trattare con urgenza. Quindi le terapie intensive dovrebbero essere in questi reparti di medicina interna, come avviene in molti paesi all’estero, non nelle rianimazioni, che rappresentano l’ultimo livello di intervento per i casi più gravi. Quando la situazione della pandemia si è fatta dura, posti così non ce n’erano a sufficienza e le cure ne hanno risentito.

Anche le terapie intensive si sono trovate spesso sotto stress.

Questo è un altro nodo da sciogliere: di quanti posti in terapia intensiva abbiamo bisogno? È una domanda cui dobbiamo rispondere, anche guardando in prospettiva, visto che questa non è la prima pandemia con cui facciamo i conti, che potrebbe anzi diventare un’endemia, cioè un’infezione permanentemente presente seppure un po’ più grave dell’influenza, e che si parla di prossime pandemie in arrivo.

È ancora possibile rimediare?

Bisogna assolutamente rimediare a questa carenza e bisogna investire un po’ di risorse che avremo dall’Europa.

A proposito di risorse, dopo anni di tagli, il Recovery plan destina alla sanità investimenti per 20 miliardi con l’obiettivo di rafforzare la prevenzione e i servizi sanitari sul territorio, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure. Tutto giusto?

Tutti obiettivi più che condivisibili, il problema è farlo.

Con quali criteri andrebbero spesi quei fondi? Quali sono le urgenze?

È la scaletta di cui parlavo prima. Al primo posto c’è la medicina territoriale, poi le terapie intensive nei reparti di degenza normali e le rianimazioni. Con 20 miliardi in più si arriva a un fondo sanitario nazionale di 130 miliardi, grosso modo quello che si spende adesso tra intervento pubblico e spesa “out of pocket”, cioè privata. Così si porterebbe l’intervento pubblico dal 7% al 9% del Pil. Aggiungendo la quota privata, la spesa sanitaria sul Pil salirebbe al 12%, pari circa a quella della Germania, della Francia e del Regno Unito, che però hanno un Pil pro capite maggiore del nostro. Sarebbe comunque un bel passo avanti.

Il progetto di riforma elaborato dal ministro Speranza punta sulla medicina di prossimità. È una buona idea?

Lo è sicuramente, il problema è che bisogna realizzarla. In pratica, si tratta di rendere più facile per il paziente l’accesso al medico. I modelli non mancano, si tratta di decidere e soprattutto di far sì che i medici di base si interfaccino di più con i pazienti anche di una certa gravità, evitando, là dove è possibile, il loro accesso ai pronto soccorso degli ospedali per non intasarli.

Come è successo in questa pandemia…

L’intasamento degli ospedali in questa terza ondata, per esempio, più che alla gravità dei casi, era legato al fatto che nei pronto soccorso arrivavano pazienti, come si suol dire, di carattere sociale, cioè erano soggetti che non potevano fare la quarantena a domicilio perché non avevano la possibilità di avere una stanza o il bagno per sé. E venivano ricoverati, occupando però il posto ad altri pazienti con altre patologie…

Abbiamo ospedalizzato troppo il sistema?

Quanto a intasamenti di pronto soccorso, reparti ospedalieri e terapie intensive, in Italia è successo più o meno quello che è poi successo anche in altri paesi. Forse abbiamo ospedalizzato di più i casi meno gravi, non avendo un efficace filtro dei medici del territorio. Ma è un aspetto che merita un’attenta riflessione e uno studio approfondito.

Concentrando gli sforzi nella cura ai pazienti Covid in questi mesi la sanità italiana ha “trascurato” altre patologie croniche. Si riuscirà a colmare questo gap?

Sì, tornando a visitare e ricoverare quei pazienti come prima della pandemia. E per far questo bisogna liberare gli ospedali e ripristinare una condizione di normalità o almeno di maggiore capienza. Richiederà tempo.

In questo anno di emergenza continua il rapporto fra Stato e Regioni nella gestione dell’emergenza ha mostrato molte crepe. Regge ancora questo modello o andrebbe corretto?

Si parla di 20 sistemi sanitari diversi, in realtà non sono differenti dal punto di vista dell’impostazione, ma delle risorse a disposizione. Comunque le tendenze prevalenti sono di carattere centralistico, legate a un principio di maggiore statalizzazione, che personalmente non condivido affatto.

Perché?

Il modello lombardo, di tipo sussidiario, funziona egregiamente. Lo Stato non deve per forza fare gli ospedali, può riconoscere anche le iniziative private. Di tutti deve assicurare la prestazione pubblica, attraverso i controlli.

Il sistema sanitario lombardo però, specie nella prima ondata, si è trovato nell’occhio del ciclone. Dove ha sbagliato?

Premesso che in alcune zone della regione la quantità dei contagi è stata così massiccia che era difficile contrastarla, valgono anche per la Lombardia le tre questioni critiche accennate all’inizio e sono venute a galla tutte le debolezze e le fragilità di una riforma sanitaria mai compiutamente realizzata. Ma non si può dire che la Lombardia sia peggio degli altri. Il sistema, a livello generale, ha mostrato la corda, e in Lombardia lo si è visto ed enfatizzato di più.

Che cosa ha insegnato questa esperienza ai medici?

Ha mostrato ai medici che c’è un aspetto della professione che si fonda sulla gratuità, sull’impegno al di là dello stipendio. Un’evidenza diffusa, soprattutto durante la prima ondata. E ha mostrato anche i limiti dell’iperspecializzazione: è giusto essere specialisti, però bisogna essere in grado anche di valutare i pazienti nel loro complesso, soprattutto in termini di condizioni di salute generale e i parametri vitali. C’è chi si è ritrovato in un reparto Covid sapendo poco di insufficienza respiratoria, o cardiaca, o renale…

Le vaccinazioni sono l’unica arma che abbiamo per sconfiggere il Covid?

Il vaccino non è l’unica arma, perché abbiamo le mascherine, il distanziamento e l’igiene delle mani, ma è senz’altro la principale. E lo sarà anche in futuro, perché il Covid potrebbe diventare la nuova influenza, con cui avremo a che fare nei prossimi anni.

Come sta andando la campagna vaccinale?

Le vaccinazioni vanno potenziate, come sta avvenendo da quando è arrivato Draghi.

Arrivasse una nuova pandemia, rischiamo ancora di farci trovare impreparati e di farci travolgere?

Speriamo di no e che si mettano in opera le riforme necessarie, vaccinando il più possibile la popolazione.

(Marco Biscella) 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

 

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori