L’Intelligenza Artificiale (IA) non è solo uno strumento e una tecnologia che rivoluzionerà il futuro della medicina: già ora è entrata a far parte di molti processi diagnostici e terapeutici, di uso comune nei nostri ospedali.
Consideriamo il campo della radiologia diagnostica. L’intelligenza artificiale analizza immagini mediche come radiografie, risonanze magnetiche (RMN) e tomografia computerizzate (TC) con un’elevata precisione, aiutando a identificare anomalie e a diagnosticare malattie. Le prime fasi della pandemia da Covid-19 hanno portato ad uno sviluppo enorme in questo ambito.
L’intelligenza artificiale può inoltre utilizzare strumenti di machine learning per sviluppare modelli predittivi utili a identificare i pazienti a rischio di manifestare determinate malattie, consentendo interventi e trattamenti precoci. L’intelligenza artificiale può anche aiutare la chirurgia robotica fornendo indicazioni e feedback in tempo reale ai chirurghi, migliorando la precisione e riducendo il rischio di complicanze.
Nella mia esperienza di medico, il mio atteggiamento verso questo fenomeno è quello ben espresso da Papa Francesco durante la sessione del G7 su questo tema: “l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego”. È proprio questo il punto: l’uso che i professionisti della medicina ne faranno.
Con una certa curiosità ho quindi letto il recente punto di vista Can Artificial Intelligence Speak for Incapacitated Patients at the End of Life?, pubblicato da alcuni medici della University of California sulla prestigiosa rivista scientifica JAMA Internal Medicine.
Nell’articolo si immagina la situazione di una figlia di fronte alla madre, ricoverata per un arresto cardiaco, che versa in condizioni gravissime e non in grado di comunicare. La figlia da tempo vive lontana dalla madre e per questa ragione non si sente in grado di prendere una decisione in sua vece, non avendo essa lasciato direttive anticipate.
A questo punto gli autori prefigurano il seguente scenario nel rapporto tra medico e parente: “Immaginate ora che questo incontro si svolga in un futuro in cui le visite mediche della madre siano state audioregistrate. Inoltre, i medici possano accedere a un algoritmo di intelligenza artificiale in grado di identificare e riprodurre brani della madre che esprime ciò che le sta più a cuore. Voi e la figlia ascoltate insieme queste registrazioni. Poi avete a disposizione un altro algoritmo, addestrato su 7 milioni di cartelle cliniche, che stima inferiore al 5% la possibilità di tornare a camminare di nuovo. Prevede anche che 3 persone su 4, con le stesse abitudini di questa donna, vorrebbero iniziare una terapia palliativa se si trovassero nella medesima condizione. Riconoscendo che le previsioni non possono eliminare tutte le incertezze, chiedete alla figlia cosa pensa e cosa prova di fronte a queste nuove informazioni”.
Viene quindi teorizzata la possibilità che l’IA possa essere impiegata per supportare le decisioni dei parenti di una persona gravemente malata o i medici sulle decisioni riguardanti il fine vita, qualora un paziente non abbia familiari.
Alcune considerazioni personali su questa ipotesi.
La medicina non è solo scienza ma anche un’arte. Ed è un’arte perché ha a che fare con un essere umano, è fondata sulla relazione tra persone: paziente, medico e familiari. Davvero si può pensare che le decisioni che riguardano le cure di una persona, al termine della sua vita, siano affidate ad un algoritmo? A una tecnologia che permetta di interpretare i desideri più profondi di una persona?
Soffro saltuariamente di una cefalea a grappolo: se fossero registrati tutti i colloqui avuti con colleghi durante quei frangenti, si potrebbe anche – erroneamente – desumere una volontà di porre fine in qualsiasi modo a tale sofferenza: il dolore può accecare la mente. Fortunatamente durante quei rari momenti di sofferenza, il dolore non è mai stata l’ultima parola sulla mia condizione, grazie soprattutto all’aiuto dei colleghi e delle persone a me vicine. Le decisioni terapeutiche e assistenziali sul fine vita non potranno mai nascere al di fuori di un rapporto umano tra paziente, medico e familiari, tenendo sempre presente che il valore della vita di una persona non può essere mai deformato e ridotto dalla circostanza dolorosa che vive.
Una falsa idea di scienza. Pensare che “le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia” (un’altra citazione di Papa Francesco al G7) non è una verità scientifica, è un modo di interpretare la scienza o, meglio, una riduzione razionalistica di essa. La scienza medica tenta di rispondere ai bisogni di salute della persona, tenendo conto della sua complessità e quindi anche di un quid ultimo che esiste in essa e non è riconducibile alla sola biologia o alla sola psicologia.
Come si può intuire dalla visione espressa nell’articolo di JAMA sopracitato, l’intelligenza artificiale non solo sfida i limiti che questa nuova tecnologia può raggiungere, ma l’idea di uomo e di scienza medica di ognuno di noi.
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