Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il decreto legge sulla riduzione delle liste d’attesa e lo schema di un disegno di legge sulle misure di garanzia sulle prestazioni sanitarie. Riguardo il primo obiettivo, si interviene aumentando sia le agende per l’erogazione delle prestazioni (anche nei fine settimana) che le retribuzioni del personale sanitario (incrementando il relativo tetto di spesa e riducendo al 15% le imposte sugli straordinari) che presterà servizi aggiuntivi. Tra le altre cose verrà posto un limite alle prestazioni intramoenia e nei Centri unici di prenotazione si terrà conto anche delle prestazioni disponibili nel privato convenzionato. Per Luigi Campiglio, professore di politica economica all’Università Cattolica di Milano, “queste sono misure certamente positive. L’importante è cercare di coniugare l’esigenza di una riduzione delle liste d’attesa con il mantenimento di uno standard di livello nelle prestazioni”.
A suo avviso servirebbero più medici?
Premetto che il tema della sanità non è semplice da affrontare, perché è un dedalo piuttosto complicato. Detto questo, c’è indubbiamente un problema quantitativo riguardo il personale sanitario che deriva anche dalle scelte del passato e dal numero chiuso per i corsi di laurea in Medicina, di cui, a mio avviso, in facoltà serie come lo sono quelle italiane non c’è bisogno: chi arriva a ultimare gli studi è senz’altro preparato, non c’è bisogno di una “selezione all’ingresso”. Il risultato è che se oggi servono più medici ci vorrà del tempo perché ne siano formati in numero sufficiente.
Anche per questo al momento si cerca di dare un riconoscimento economico al personale sanitario che si adopererà per ridurre le liste d’attesa.
È una scelta giusta perché oggi il settore pubblico non paga adeguatamente, ma resta il luogo in cui in misura elevata un medico può accumulare esperienza. Il problema è che talvolta, acquisite maggiori competenze, si lascia il pubblico per passare al privato. Fortunatamente gli ospedali pubblici sono nella maggior parte dei casi ancora di qualità e non mancano casi di eccellenza e di medicina avanzata nel nostro Paese.
Bisognerebbe, quindi, aumentare la spesa pubblica nella sanità?
Al di là delle polemiche che ci sono state sulle risorse stanziate dall’attuale Governo, è pacifico che, visto quello che è accaduto nel passato recente, alla sanità vadano destinate più risorse. Dai dati Eurostat relativi al 2022 risulta che in Europa il Paese che ha la spesa pubblica per la salute (non solo quindi ospedali, ma anche medicinali, ecc.) in rapporto al Pil più alta è l’Austria con il 9,3%. Subito dopo c’è la Francia con il 9,1%, poi la Germania con l’8,5%. L’Italia è al decimo posto a pari merito con il Portogallo con il 7,1%.
Come si può spendere di più se si si continua a ripetere che in vista della prossima Legge di bilancio i conti faticano a tornare e che coi nuovi vincoli del Patto di stabilità bisognerà ridurre la spesa pubblica?
Non è facile rispondere, ma dal punto di vista di un economista è perfettamente coerente evidenziare che nel caso della spesa per la sanità stiamo parlando di investimenti in capitale umano. Se si è dell’idea che certi investimenti dovrebbero avere, ai fini dei parametri che contano per Bruxelles, un trattamento preferenziale rispetto alla spesa corrente, non possiamo non pensare che questo valga anche per quelli in capitale umano.
Un trattamento preferenziale che oggi qualcuno richiede per le spese nella difesa…
Se si guarda con favore alle spese per la difesa militare, come si può non farlo per le spese destinate a difenderci da un nemico come lo sono le malattie? Questo tipo di investimento rappresenta quello che viene definito “debito buono”. Non si può, inoltre, non tenere conto che, visto anche il progressivo invecchiamento della popolazione, tutta l’Europa rischia di trovarsi in una situazione di emergenza. A meno di non pensare che il futuro sia quello di doversi rivolgere al settore privato pagando un’assicurazione sanitaria.
C’è qualcosa che aggiungerebbe ai provvedimenti presi per ridurre le liste d’attesa?
Non trascurerei il ruolo di presidi intermedi che viene svolto da associazioni che fanno attività di prevenzione e screening in piccoli ambulatori, ma con personale qualificato. Promuovere organizzazioni di questo genere può essere parte di una strategia per cercare di ridurre le liste d’attesa, perché chi vi si rivolge può essere ben indirizzato verso specifici esami da svolgere o già curato.
(Lorenzo Torrisi)
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