… Do not pretend that things will change if we keep doing the same. The crisis is the greatest blessing that can happen to people and countries, because the crisis brings progress…”. Mi piace partire da queste affermazioni attribuite ad Albert Einstein per partecipare al dibattito, avviato da Giorgio Vittadini, sul cosiddetto modello lombardo nella concezione, prima ancora che nella gestione, del Servizio sanitario regionale.



Avremmo fatto tutti volentieri a meno di questa crisi. Ma almeno proviamo a immaginarla come un’occasione. Per far questo, tuttavia, proviamo a liberarci dai cosiddetti feticci ideologici (non certamente dal perseguimento degli ideali) che inquinano il dibattito, lo rendono sterile, per nulla funzionale a un pacato e razionale ragionamento. Per questo motivo tre premesse sono doverose.



1. I ragionamenti che seguono non hanno nulla da spartire con le vicende giudiziarie che hanno coinvolto governatori e dirigenti regionali. Non ho alcuna competenza in merito, e sono stato addestrato ad esprimere le mie opinioni solo a condizione di avere buone prove che le sostengano.

2. I ragionamenti che seguono non hanno nulla a che vedere con preconcetti ideologici: ben venga un modello che prevede l’erogazione paritaria (orizzontale) delle prestazioni del pubblico e del privato. A condizione che il sistema offra prove di migliore efficacia, equità e sostenibilità rispetto alle alternative. E le prove, seppure parziali e incerte, non possono che derivare dai dati disponibili, cercando di capire cosa suggeriscono, cosa funziona e cosa no, se le debolezze del sistema possono essere corrette, o bisogna pensare a un sistema alternativo.



3. L’eccezionale diffusione dell’epidemia in Lombardia, e soprattutto le pesanti implicazioni e i drammi che ha comportato in vasti strati della sua popolazione, non possono essere banalizzate e semplificate. La complessità dei problemi di cui stiamo parlando, poco o nulla si presta a ragionamenti simili a un’equazione di primo grado. In altri termini, la realtà non è composta solo dal bianco e dal nero, come gli insulsi dibattiti dei troppi talk show e la pletora di improbabili esperti (di tutto) farebbero intravedere, ma soprattutto da tutta la scala di grigi intermedia.

Il sistema lombardo dunque, in generale, e al di là dalla crisi attuale, funziona? Ovvero, consente di rispondere appropriatamente ai bisogni di salute dei suoi cittadini, erogando le migliori cure disponibili, garantendo l’equità dell’accesso alle cure in funzione dei bisogni, e con costi compatibili con le risorse che il bilancio pubblico può permettersi? La risposta è positiva se si analizzano alcuni dati.

Le cosiddette eccellenze sono una realtà innegabile di quel sistema. L’oncologia, la neurologia, l’ortopedia, le malattie cardiovascolari e quelle metaboliche sono solo alcuni esempi di settori della medicina che hanno trovato in Lombardia risorse e competenze di eccezionale qualità. E questo non è un caso, bensì il risultato di un sistema che, basato sulla cosiddetta competizione orizzontale, ha finito per generare eccellenze. La Lombardia, come ci ricorda Merlino, è la Regione con la percentuale di mobilità passiva più bassa in Italia, pur confinando con Regioni dotate di servizi sanitari di buona qualità. Questo vuol dire che la soddisfazione dei lombardi verso il sistema di cure erogato dalla regione è soddisfacente, pur essendo la spesa sanitaria pro-capite sostenuta dalla Lombardia all’incirca equivalente a quella della media italiana (1.980 euro vs. 1.918 euro; fonte Mef, Ragioneria dello Stato, monitoraggio della spesa sanitaria, luglio 2019).

Tutto questo descrive un quadro grigio fortemente tendente al bianco, perché è vero che c’è molto da migliorare in numerosi settori, ma tuttavia il quadro che ne emerge non è così negativo come sembrerebbe emergere dai detrattori del sistema. I dati sopra riportati indicano che il modello offre prestazioni più efficaci, più soddisfacenti e più efficienti che altrove.

Ma quella appena delineata offre una visione parziale del sistema. L’attuazione della riforma del sistema socio-sanitario in Lombardia (Legge regionale 23/2015), che pure si è ispirata ad alcuni principi innovatori (dalla presa in carico del paziente cronico alla definizione della responsabilità della sua gestione, alla conseguente integrazione dei servizi assistenziali e la previsione di un sistema di rimborso che superi quello della sommatoria delle prestazioni), era già fortemente in crisi prima dell’attuale emergenza. E la crisi, la difficoltà attuativa della riforma, viene da lontano, dalla legge regionale n. 31/1997 che, attribuendo l’erogazione dei servizi sanitari ai presìdi/aziende ospedaliere, ha di fatto creato una competizione (questa volta patologica e verticale) tra medicina specialistica ospedaliera e medicina di base territoriale. Non è un caso che la Lombardia sia la regione con il tasso di ospedalizzazione più alto tra i contagiati da Covid-19. L’assistenza territoriale era già abbandonata a se stessa prima dell’emergenza.

Ciò che si è verificato ha fatto sostanzialmente emergere in modo drammatico un problema. Tutto questo descrive un quadro grigio fortemente tendente al nero, perché è vero che la Regione offre eccellenze, ma a discapito di un modello che dall’integrazione funzionale tra ospedale e territorio potrebbe garantire una più efficace, equa, e forse efficiente risposta ai bisogni.

Un’ultima considerazione. L’Italia, e la Lombardia non fa certamente eccezione, non ha saputo o voluto far crescere adeguatamente la cultura della sanità pubblica. La sanità pubblica non è qui intesa come il sistema di prestazioni erogate da soggetti di diritto pubblico (questa è una visione distorta anch’essa frutto del pressapochismo di certi dibattiti televisivi). La sanità pubblica è qui definita come l’insieme di sforzi organizzati della società per sviluppare politiche per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute e per favorire l’equità sociale. Ma lo sviluppo di politiche adeguate richiede che il Ssn disponga di professionisti in grado di indirizzare le politiche stesse sulla base delle migliori evidenze disponibili.

Eppure, la figura del biostatistico non è mai stata presa in considerazione come parte integrante delle professioni sanitarie. I servizi di epidemiologia sono stati spesso smantellati. In molti casi si è ritenuto che la manutenzione del sistema tariffario potesse sostituire le funzioni di sorveglianza epidemiologica e impostazione statistico-epidemiologica degli studi in grado di indirizzare le politiche. Alla visione globale della promozione della salute e della prevenzione primaria, si è andata gradualmente sostituendo una visione sempre più specialistica dell’organo malato, alla medicina personalizzata (ovvero rivolta a soddisfare i bisogni del cittadino unico per le sue caratteristiche cliniche e per l’ambiente sociale e culturale che lo caratterizza), si è andata gradualmente sostituendo la cosiddetta medicina di precisione (ovvero rivolta al recettore molecolare in grado di funzionare da bersaglio di terapie sempre più sofisticate, e costose, e quindi in grado di generare più profitti). In queste condizioni non dobbiamo sorprenderci se anziché controllare i focolai epidemici per evitare nuovi contagi, in alcune Regioni, in Lombardia in particolare, si è creduto di poter gestire la cura dei contagiati.

Da tutto questo ne traggo una convinzione e una proposta. La convinzione è quella da cui sono partito. Dalle crisi dobbiamo trarre l’ispirazione per cambiare in meglio. La proposta è che dal dibattito e dal confronto tra persone autenticamente ispirate da una visione comune dell’obiettivo da raggiungere (dove andare), senza necessariamente condividere a priori come arrivarci, ma che nel contempo abbiano una documentata competenza in merito, condividano un Manifesto per una nuova sanità, che sappia contribuire al cambiamento. Ne abbiamo bisogno.

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