“In Lombardia, considerato il numero delle persone colpite dal Covid, la velocità del contagio, l’intensità e la concentrazione in pochissimi giorni di tante patologie così gravi, l’impegno è stato imponente, si è vista in atto una grande capacità di mobilitazione e di flessibilità da parte di tutti gli operatori sanitari alle prese con un fenomeno che deve essere ancora conosciuto”. È il bilancio dei primi quattro mesi di contrasto all’epidemia da coronavirus (il 21 febbraio fu scoperto il primo caso positivo a Codogno) che in questa intervista al Sussidiario traccia Marco Trivelli, 56 anni, che dal 18 giugno è il nuovo direttore generale della sanità in Lombardia. Trivelli invita a non abbassare la guardia, perché ci sono da affrontare ancora “problemi impellenti”, primo fra tutti “capire se riusciamo o meno a tornare a regime con l’attività ambulatoriale”. E nella convinzione che le critiche rivolte al modello sanitario lombardo “nel tempo saranno ridimensionate, perché si capirà la dimensione del fenomeno che ci ha colpiti”, indica le nuove sfide e priorità, in vista soprattutto, dell’arrivo di una eventuale nuova ondata: da un lato “bisogna lavorare sul doppio fronte dell’accoglienza ospedaliera e del monitoraggio territoriale” e dall’altro far sì che “medici ospedalieri e medici di base, per il bene del paziente che insieme vedono, da prospettive diverse e complementari, d’ora in poi si alleino e si parlino”. Ma nei suoi pensieri non c’è solo l’emergenza Covid, che rischia di “comprimere tutte le altre forme di cura”: un rischio di sotto-trattamento di molti pazienti che bisogna scongiurare.



La Lombardia è la prima regione che ha dovuto affrontare l’epidemia e lei come direttore generale degli Spedali Civili si è trovato in trincea a Brescia, una delle due province dove il Covid ha colpito in misura incandescente. A quattro mesi di distanza dal primo caso di Codogno che bilancio si può stilare? Come si è comportata la sanità lombarda?



Avendo permesso a ogni paziente che aveva necessità di essere assistito dal punto di vista respiratorio di essere accolto, complessivamente si è comportata bene, ha saputo tenere su questo aspetto dell’accoglienza. E considerato il numero delle persone, l’intensità della malattia, la concentrazione in pochissimi giorni di tante patologie così gravi l’impegno è stato imponente, si è vista in atto una grande capacità di mobilitazione e di flessibilità da parte di tutti gli operatori sanitari alle prese con un fenomeno che deve essere ancora conosciuto.

La Lombardia ha fatto da apripista per tutti gli altri?



Il fatto che il Covid fosse un virus sconosciuto ha impedito di poter connettere fenomeni che oggi vengono riconsiderati proprio alla luce del coronavirus. Adesso si spiegano tante cardiopatie o polmoniti di novembre-dicembre-gennaio, che allora non avevano spiegazione. Cercavamo virus conosciuti, nessuno sapeva di questo Covid.

Sono stati commessi degli errori?

Quello che può essere mancato – ma nessuno al mondo se ne è accorto, quindi non è un difetto della sola Lombardia – è il non essersi avveduti che si stava formando un magma sotterraneo che poi è esploso. Noi abbiamo visto solo la fase eruttiva, l’apice.

La prima ondata dell’epidemia ha insegnato qualcosa?

Noi abbiamo gestito molto bene l’emergenza clinica, solo due o tre ospedali sono andati in grossa difficoltà, la maggior parte ha retto l’urto. L’aspetto da correggere, la prima lezione da imparare, dal punto di vista organizzativo, è riuscire a saper gestire il magma, a gestire l’epidemia.

In che modo?

A febbraio la gestione dell’epidemia da meningococco, la forma epidemica da noi più comune, è stata da manuale: a fronte di alcuni casi di meningococco, anche molto gravi, è stato rintracciato il paziente zero, poi si sono scovati gli altri primi pazienti, sono stati gestiti 400 contatti per ciascun paziente, è stato predisposto un cordone sanitario attorno a 20-30mila persone, con 60mila vaccini eseguiti nel giro di qualche giorno. Un progressivo isolamento a cerchi concentrici che ha dato i suoi risultati: questo è il modo di gestire un’epidemia in Occidente. La pandemia da coronavirus, invece, è stato un fenomeno del tutto nuovo.

C’è chi dice che c’era già stata la Sars…

Rispetto alla Sars o a ebola, che comunque erano casi circoscritti, il Covid ha dimostrato una contagiosità inedita, non letale come ebola, ma eccezionale: a marzo era evidente come fosse incontenibile, non c’era la possibilità di isolare nulla perché il virus si annidava dappertutto. Allora dicevo che l’isolamento doveva cominciare ben prima di entrare in ospedale, già dal parcheggio: un operatore sanitario avrebbe dovuto bardarsi da coronavirus nel momento stesso in cui scendeva dalla sua auto.

Qual è la sua opinione sulle critiche che sono piovute da più parti sulla sanità lombarda?

La libertà di pensiero non è in discussione, si può sempre criticare, ma le critiche nel tempo saranno ridimensionate, perché si capirà la dimensione del fenomeno che ci ha colpiti: siamo alle pendici di un gigante. Vorrei però fare due considerazioni.

Prego.

Penso innanzitutto che queste critiche indichino una grande paura, il fatto che tutto sia reso come un servizio facile, dall’esito scontato. Invece curare non è un esito sicuro, anche in tempi ordinari non ci sono certezze assolute. Si è voluto pensare che il Covid fosse una cosa gestibile, un incidente di percorso. Ma il coronavirus non è stato così, è stato un evento totalmente nuovo, di cui non si ha memoria, dal punto di vista biologico, gestionale e manageriale, negli ultimi 80 anni.

E la seconda considerazione?

Vogliamo tornare all’ordinario, ma non ci siamo ancora. E questa attenzione al passato, come se tutto fosse sistemato, è molto pericolosa perché ci distrae dal presente, da problemi che sono ancora impellenti.

Quali?

Uno su tutti: il problema principale del presente è capire se riusciamo o meno a tornare a regime con l’attività ambulatoriale. Altrimenti questo, nel tempo, rischia di portare a un sotto-trattamento di pazienti e patologie. Bisogna far sì che le precauzioni necessarie per mettere in sicurezza i pazienti quando arrivano in ospedale per visite ambulatoriali specialistiche non siano tali da impedire di svolgerle.

Quali punti di forza ha il modello lombardo tanto criticato? In che cosa può essere migliorabile?

Di migliorabile c’è quello che serve sempre: una grande capacità di attenzione clinica, osservando i pazienti come evolvono. Quindi, più vigilanza sanitaria.

L’8 agosto scade la sperimentazione della riforma Maroni: sarà il rafforzamento dell’integrazione ospedale-territorio una delle sfide più urgenti da affrontare? Come va ricostruito questo rapporto?

È importante che medici ospedalieri e medici di base, per il bene del paziente che insieme vedono, da prospettive diverse e complementari, d’ora in poi si alleino e si parlino per convergere su una valutazione congiunta, scambiandosi le informazioni in modo semplice ma efficace. È il punto cruciale nella gestione della cronicità e di pazienti complessi come quelli attuali. Il Covid ha messo in luce questa esigenza che da tempo avvertiamo.

Il modello pubblico-privato convenzionato è ancora valido?

Sicuramente. Chiunque curi veramente, vale, serve, è un alleato. Non siamo nelle condizioni di distinguere in base alla carta d’identità della proprietà di una struttura sanitaria. Bisogna guardare agli esiti e se sono positivi, ben vengano. Oggi serve il concorso di tutti, non possiamo permetterci di non coinvolgere tutti, privati profit e non profit. È la ricchezza del modello sanitario lombardo: non sfruttare la capacità di iniziativa diffusa è lederne una delle peculiarità.

Cosa bisognerà fare per prepararsi a una eventuale seconda ondata del coronavirus?

Il livello ospedaliero oggi mi sembra attrezzato per potersi riconvertire rapidamente al Covid qualora dovesse rendersi necessario, anche in grande sicurezza. Abbiamo imparato a muoverci, tanto che non si sono registrati più contagi tra il personale sanitario.

Ma dal punto di vista epidemiologico non ci sono azioni da intraprendere?

Stiamo preparando gli strumenti di diagnosi precoce individuale e di monitoraggio epidemiologico proprio per capire per tempo se si verifica una ripresa o un rafforzamento della malattia. Quindi bisogna lavorare sul doppio fronte dell’accoglienza ospedaliera e del monitoraggio territoriale.

Nella gestione del Covid, secondo l’Economist, l’Italia non è affatto un modello, anzi è tra i paesi peggiori per scarsa tempestività nello scovare i casi positivi, poca capacità di monitoraggio e isolamento e gestione delle ospedalizzazioni contro il coronavirus. Che ne pensa?

A mio avviso solo Israele ha fatto meglio dell’Italia, nessun paese europeo si è comportato meglio di noi e nessun paese penso abbia dovuto fare i conti con la stessa concentrazione dell’epidemia che ha investito la Lombardia. In queste emergenze una settimana di tempo di vantaggio è fondamentale e tutti l’hanno avuta. Eppure ci sono paesi, come la Gran Bretagna, che pur potendo sfruttare ben due settimane di anticipo rispetto a noi non si sono affatto organizzati.

Lei arriva alla direzione della sanità lombarda in un momento delicato e difficile. Quale sarà la sua bussola?

Vista la condizione di relativa povertà in cui ci troviamo e volendo che anche la sanità partecipi alla ripartenza e alla ricostruzione complessiva dell’Italia, credo che l’elemento fondamentale sia permettere a tutti in Lombardia di lavorare bene: far sì che i 140mila soggetti che si occupano di sanità ospedaliera in senso stretto più le decine e decine di migliaia di persone di quel mondo sociale che vi ruota attorno possano esprimersi con la loro creatività. Non possiamo aspettare che ci sia una direzione che orienti e crei innovazione, sviluppo, benessere. È un lavoro di tutti, ovviamente su mete indicate a livello centrale, perché devono essere unitarie, ma le modalità con cui arrivarci devono essere locali, specifiche.

Qual è la prima meta da raggiungere in questo difficile e anomalo 2020?

Per quest’anno vorrei fare in modo che non ci sia un eccessivo riflesso negativo sulla salute dei cittadini, tutti, per un eccesso di attenzione al Covid, che rischia di comprimere tutte le altre forme di cura. Mi sembra il problema principale da affrontare.

Un’ultima domanda: qual è il suo giudizio sulla sanità in Italia?

In Italia siamo curati in 60 milioni di persone, la salute è un fenomeno pervasivo, non è vero che solo il sistema organizzato sanitario provvede alla sua gestione. E questo non è un di meno, è un di più. Se tutto – ospedali, ambulatori, cure, sicurezza – fosse considerato una forma di passione civile, tutto diventerebbe più ricco, fattibile, semplice e si spenderebbe di meno. È un concorso di tutti.

(Marco Biscella)

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