Caro direttore,
può non piacere e suscitare grande fastidio perché rimanda a tempi e situazioni che si preferirebbe non evocare, ma il virus Sars-CoV-2 non è scomparso: è ben presente e suscita continuamente i suoi effetti negativi, talvolta di più, altre volte di meno, ma che sempre negativi sono. Giusto a titolo di esempio, secondo i dati ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità, e limitandoci agli effetti più gravi cioè i decessi, nel mese di ottobre 2023 sono morte 755 persone a causa del virus, nel mese di novembre i morti sono stati 952 e nel mese di dicembre 2023 si è arrivati a quota 1.531: è come se ogni mese senza che ce ne accorgiamo venisse cancellata dal nostro territorio la popolazione di un piccolo comune.



Si dirà: sono vecchi, malandati, pluripatologici, fragili, e via elencando, per trovare giustificazioni socio-psicologiche per la loro dipartita e per la nostra tranquillità personale, ma si tratta comunque di persone, affetti, storie, che senza virus avrebbero accompagnato ancora, e magari anche a lungo, le nostre esistenze. Certo non sono più in discussione scelte gravi di limitazioni alle attività economiche, sociali, e ricreative, o alle libertà personali, e nell’immaginario collettivo abbiamo ridotto tutto ad una semplice influenza che non richiede più nemmeno i mezzi di protezione individuale più semplici (mascherine, disinfezione, lavaggio mani).



Non si vogliono qui evocare spettri che sono oggettivamente superati, ma c’è il rischio elevato di dimenticare tutto quello che abbiamo dovuto a viva forza imparare in questi ormai quasi quattro anni di pandemia. Ma non mettiamo il carro davanti ai buoi ed andiamo con ordine.

Dire che è una semplice influenza può apparire rassicurante, ma è il caso innanzitutto di ricordare gli effetti documentati gravi delle influenze stagionali. Ne avevamo già scritto nel febbraio 2022 indicando, secondo i dati pubblicati sulla rivista International Journal of Infectious Diseases da ricercatori italiani, che tra il 2013 ed il 2017 gli episodi influenzali che si sono succeduti nel nostro Paese avrebbero procurato più di 68mila decessi (7.027 nella stagione 2013-2014, 20.259 nel 2014-2015, 15.801 nel 2015-2016 e 24.981 nella stagione 2016-2017): numeri decisamente elevati per ritenere “semplice” (nel senso della rilevanza sanitaria) una influenza.



Ma non sono solo gli effetti avversi gravi a risvegliare la nostra corta memoria. La pandemia ci ha insegnato il ruolo negativo che può avere di fronte agli insulti infettivi la scelta del luogo di cura: è il caso di ricordare il diffondersi degli effetti del virus negli ospedali e nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa) e la necessità di ricorrere invece alle varie forme della assistenza territoriale. Cosa è rimasto di quell’indicazione, per altro agevolata e sostenuta anche finanziariamente dalle risorse economiche contenute nella parte sanitaria del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)?

In generale si è costruito o restaurato qualche muro e si sono tagliati un po’ di nastri; nei casi migliori (ma sono poco più che eccezioni) sono state rese operative anche delle attività sanitarie e socio-sanitarie: pur essendo stata sbandierata come la soluzione tecnica necessaria per affrontare situazioni come il virus Sars-CoV-2, l’assistenza territoriale ad oggi sarebbe in grado di contrastare una nuova pandemia? Si vince facile rispondendo no, e le problematiche che stanno dietro la realizzazione delle strutture previste dal Pnrr (non solo il personale, ma anche la visione complessiva, la tecnologia, il coinvolgimento dei – e la collaborazione tra – i professionisti, ecc.) mi fanno essere dubbioso che qualcosa di buono (fatti salvi i soliti, pochi, volonterosi) si riesca a realizzare nei prossimi anni.

Del resto, che il territorio oggi non funzioni è evidente se facciamo mente locale all’episodio influenzale in corso e alle ripetute disfunzioni che vengono segnalate per via di un accesso esagerato alle strutture di pronto soccorso. Molti sono sicuramente i motivi per i quali le persone fanno ricorso alle strutture della emergenza-urgenza (e non è questo il luogo per un loro esame), ma l’osservazione che una parte elevata di questi accessi è riconducibile ai cosiddetti “codici bianchi”, cioè ad attività per cui non è necessario il pronto soccorso (per altro anche di diversi “codici verdi” si dovrebbe discutere se debbano passare o meno dai pronto soccorso), dice da una parte il non adeguato funzionamento dei percorsi alternativi all’emergenza-urgenza, e tra questi in primis l’assistenza territoriale, e dall’altra la necessità di una formazione ed informazione al cittadino utente perché individui il percorso di cura più appropriato per la propria esigenza sanitaria, che nel caso di influenza e virus vari stagionali non è di certo in prima battuta (salvo eccezioni ovviamente) l’accesso al pronto soccorso.

Se l’assistenza territoriale, al di là delle specifiche e non realizzate strutture previste dal Pnrr, è stata il grande assente (in buona compagnia, per altro) in questi anni di servizio sanitario nazionale, un altro elemento che la pandemia da Sars-CoV-2 ci ha insegnato e che abbiamo subito dimenticato è la prevenzione, individuale e collettiva. Lo si vede nella fatica con cui la popolazione ha aderito (e sta aderendo) alle campagne vaccinali sia per il Covid che per l’influenza stagionale (senza parlare poi del morbillo, che continua a dare segni della propria presenza); lo si vede nell’abbandono di tutti quegli atteggiamenti precauzionali che tanto bene avevano fatto nei primi anni del quadriennio pandemico (mascherine, lavaggio mani, disinfezione, …); lo si vede inoltre nei comportamenti individuali che anche di fronte a situazioni che suggerirebbero il distanziamento e la prudenza (raffreddore, tosse, malesseri respiratori minori, ecc.) vedono l’abbandono di qualsiasi atteggiamento cautelativo perché di disturbo alle libertà o ad altre esigenze personali (è solo il caso di ricordare il recente periodo festivo, con il suo accompagnamento di pranzi e cene di gruppo o di vacanze cui non si vuole, o non si può, rinunciare). E, aggiungo io da nonno con nipotini che frequentano l’asilo, lo si vede nella velocità con cui piccoli appena (o ancora non del tutto) sfebbrati vengono scaricati in quello straordinario e naturale collettore di virus che è la scuola materna: peccato che poi tutto quello che i bimbi (involontariamente) portano a casa trova nei soggetti più fragili (in primis gli anziani) il tavolo su cui banchettare. La prevenzione è impegnativa e faticosa, e trova anche alcune avversioni ideologiche (vedi l’esempio dei no-vax), ma nel caso dei virus è assolutamente necessaria e raccomandata.

È giusto esercitare le proprie, anche feroci, critiche nei confronti dei difetti che si possono imputare all’organizzazione delle attività del servizio sanitario, soprattutto quando ha la memoria corta e dimentica quello che dovrebbe avere imparato dalle vicende negative appena trascorse, ma è necessario che cresca anche una coscienza civile collettiva che attraverso un’adeguata formazione e informazione e l’assunzione di atteggiamenti individuali adeguati aiuti il Ssn a svolgere al meglio il compito per il quale è stato predisposto.

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