Cinque assi fondamentali – di cui tre verticali (territorio e sanità di prossimità; ospedali in rete; salute e ambiente) e due trasversali (conoscenza per la salute e innovazione digitale per il Servizio sanitario nazionale), oltre 20 progetti per un ammontare complessivo di 68 miliardi da realizzarsi nei prossimi 5 anni. Sono i numeri che caratterizzano le proposte presentate dal ministero della Salute (giornalisticamente chiamate “piano Speranza”) per accedere alle risorse che l’Unione Europea metterà a disposizione dell’Italia con il Recovery fund. L’obiettivo? “Non un piano di emergenza ma un progetto di riforme”, come ha ricordato lo stesso ministro Roberto Speranza, che intende chiudere la lunga stagione dei tagli alla sanità. Come realizzare questo progetto, che comunque è ancora al vaglio dei tavoli tecnici? Si spazia – solo per citare alcune delle proposte – dalla riforma della sanità territoriale all’istituzione delle Case di comunità con i medici di famiglia, dagli interventi per l’ammodernamento degli ospedali alla creazione dei nuovi presidi per degenze temporanee, dalla revisione degli Ircss al contrasto alla mobilità sanitaria, dalla riforma delle Rsa al potenziamento del Fascicolo sanitario elettronico. Tanta carne al fuoco, insomma. Ma che impressione lascia questo mosaico? È nel suo complesso condivisibile? “Condivido l’approccio della prossimità – risponde Marco Trivelli, da tre mesi direttore generale della sanità in Lombardia –, condivido il fatto che si voglia sfruttare un momento di crisi per dare una forma diversa al Ssn e apprezzo lo sforzo che si facciano gli investimenti”. Ma per Trivelli non tutte le tessere sono perfettamente collocate al loro posto. “Prevale il concetto che le parole hanno un significato univoco, invece le parole della sanità – cura, prossimità, competenza, formazione interdisciplinare… – hanno un significato più ricco e occorre che qualcuno le prenda veramente sul serio per realizzare qualcosa di diverso rispetto a quello che ci si immagina a livello ministeriale o regionale. Bisogna considerare che il fattore decisivo sarà il lavoro che svolgeranno i 600mila dipendenti pubblici del Ssn e le oltre 400mila che lavorano nel privato della sanità e del sociale. Questo richiede che le regole siano molto nette come indirizzo ma agili come attuazione”.



“Non presenteremo un piano per l’emergenza ma un progetto di riforme per il prossimo decennio. Abbiamo l’opportunità di portare insieme riforme e investimenti, siamo di fronte a un inedito”. Lo ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza. Il suo piano che nuovo Servizio sanitario nazionale disegna?



Il piano, in effetti, ha l’ambizione di ridisegnare il Sistema sanitario nazionale e la parola-chiave attorno a cui ruota questa riforma è prossimità, il vero fil rouge delle varie proposte. A mio avviso, è una chiave di lettura intelligente su come la sanità dovrebbe evolvere. Il rischio, però, è di usare questa parola in termini riduttivi, sotto il profilo solo tecnologico o di vicinanza di un servizio ambulatoriale e leggero. Non basta.

Si riferisce all’idea di istituire le Case della comunità con medici di famiglia, specialisti e infermieri per offrire assistenza 7 giorni su 7 a orario continuato e ai presidi a degenza temporanea, che hanno lo scopo di ridurre l’istituzionalizzazione e l’ospedalizzazione per soggetti con patologie croniche riacutizzate?



L’idea delle Case della comunità, che pure sono un passo in avanti rispetto all’ospedale, mi lascia molto perplesso: è una modalità di realizzazione facile, ma non sono una soluzione sicura, anzi.

Perché?

Premesso che nelle proposte del piano Speranza non si intravvede la complessità che sta dietro alla parola, la prossimità va vista sotto due profili. Il primo: bisogna portare competenze specialistiche forti vicino al paziente, non un’assistenza leggera.

Che cosa intende?

L’assistenza leggera è importante, ma non curativa. Alla fine, su qualsiasi problema di cura, ci si rivolge all’ospedale, perché è lì che sono presenti prevalentemente le competenze specialistiche. È un discorso che vale per tutta l’Italia. Fuori dagli ospedali non c’è la capacità di trattare clinicamente il 95% delle persone, anche croniche, multipatologiche. Con un’avvertenza.

Quale?

Lo specialista oggi, offrendo il suo apporto solo nella propria branca d’intervento, anche quando visita il paziente in ospedale o in ambulatorio, non riesce a vedere la persona nella sua interezza. E qui balza subito il problema della prossimità: nella cura vanno contemplati tutti gli aspetti clinici, assistenziali e sociali. Spesso la criticità o complessità dell’intervento o della terapia, pur coinvolgendo le forme attuali di assistenza domiciliare, costringe i pazienti, specie i più anziani, a muoversi per poter essere curati. Invece prossimità significa portare la cura, portare l’assistenza e impattare sulle condizioni abitative e sociali che possono ostacolare una persona ad accedere alle cure.

Come portare queste competenze vicino al paziente?

Portare la cura, dal punto di vista culturale e dell’operatività tecnica, è il passaggio che più coinvolge la creatività degli operatori e rispetto al quale la dirigenza, ministeriale o regionale che sia, deve lasciare un margine d’azione. Pronti poi a sostenere qualsiasi tentativo efficace che possa essere replicato ed esteso.

La telemedicina, che il piano Speranza intende potenziare, potrebbe essere un valido aiuto in tal senso?

La telemedicina potrebbe aiutare, ma non basta: bisogna fare in modo che l’ospedale esca dall’ospedale e si trasferisca in alcuni punti specialistici, diffusi ogni 50-100mila persone, in grado di interfacciarsi con i medici di medicina generale aggregati in strutture stabili e facendo da intermediazione con i pazienti in un modo più efficace di quanto possa fare un singolo medico oggi.

In concreto?

La prossimità viaggia sulle gambe delle persone. Quindi, prima di spendere le risorse in modo uniforme su una soluzione specifica – un piano massiccio di Case della comunità, come il piano Fanfani negli anni 50 per l’edilizia abitativa – sarebbe più opportuno far nascere, pur con i mezzi di oggi, esperienze di uscita degli specialisti degli ospedali verso il territorio, in sinergia con i medici di medicina generale attraverso forme di aggregazione che permettano alle persone malate un accesso più facile di quello che oggi stiamo consentendo. Man mano che le esperienze nascono, si battezzano. E potrebbero uscire soluzioni diverse territorio per territorio.

Il piano Speranza prevede interventi per l’edilizia sanitaria: 34 miliardi per ospedali sicuri, tecnologici, digitali e sostenibili. Che ne pensa?

Va bene investire 34 miliardi, ci mancherebbe, è una grande opportunità. Ma proprio l’emergenza Covid ha fatto emergere con nettezza che gli ospedali di oggi non sono strutturalmente adeguati. Tre quarti degli ospedali, in Lombardia il 50% circa, sono in deroga rispetto ai criteri di accreditamento strutturale.

Di cosa hanno bisogno, allora, gli ospedali?

Gli ospedali hanno bisogno di flessibilità, devono poter essere facilmente convertiti: le nostre strutture non sono pensate per poter ospitare attività ambulatoriali e poi se serve ricoveri e poi ancora se serve degenze sub-intensive. La medicina sta evolvendo velocemente, ci sono intere patologie che nei nostri ospedali non sono assolutamente contemplate.

Per esempio?

Penso alla neuropsichiatria, che invece necessita anche di strutture di cura adeguate, per volume, per fascia di età e branca, per esempio neurologica o psichiatrica. Lo Stato deve mettere a disposizione le risorse, ma contemporaneamente occorre che i clinici si muovano, veramente e rapidamente, per pensare forme di cura diverse, a partire dal mondo pediatrico, che è tutto da reinventare.

Altrimenti?

Altrimenti si rischia di utilizzare quei 34 miliardi solo per ristrutturare quel che c’è.

Anche in questo ambito entra gioco la prossimità? E come?

Certo. Qui il concetto di prossimità si traduce – mi vien da dire – nell’obiettivo di personalizzare le cure. Ma per far questo le strutture devono essere, appunto, flessibili e adeguabili. Ci vuole uno sforzo in più, di fantasia, al di là dello stanziamento delle risorse.

Il piano Speranza intende investire con forza nei servizi di prevenzione. Le proposte vanno nella giusta direzione?

Il concetto di prevenzione va allargato. Oggi, a livello nazionale e di singole regioni, la prevenzione funziona, è ben percepita dai cittadini, con prassi molto strutturate, come vediamo nelle campagne di vaccinazione o di screening.

Che cosa bisognerebbe aggiungere?

La prevenzione è molto di più di quel che si sta facendo. Prendiamo il Covid.

Giusto, il Covid. Nei progetti del ministero non si dice nulla, ma l’Italia ha pagato il fatto che non avesse un piano anti-pandemico aggiornato. Come si può prevenire una pandemia?

Bisogna imparare a saper leggere più rapidamente di quanto riusciamo oggi il fenomeno Covid. Non sappiamo quante persone siano state contagiate in Italia, c’è solo uno studio Istat che, su una casistica molto limitata ma sufficientemente attendibile, rivela come al 31 luglio si contavano un milione e 450mila contagiati, di cui 750mila in Lombardia, il 51% del totale. Nella realtà, invece, ne sono stati intercettati e accertati molti meno.

La possibile soluzione?

La lettura dei fenomeni deve essere più rapida e strutturata, soprattutto in una logica di allerta, cogliendo e interpretando i segnali deboli. È lo stesso concetto dei sismografi. Peccato che nella sanità non abbiamo sistemi di rilevamento in grado di misurare l’evoluzione delle patologie con un orizzonte temporale di 15 giorni-un mese. È una forma di prevenzione che si può ottenere, coinvolgendo di più l’epidemiologia e la lettura clinica dello stato di salute della popolazione. Questo è un fronte importante sia sotto il profilo della strumentazione che delle competenze. Perciò va costruito un sistema-sentinella poderoso, per monitorare fenomeni apparentemente molto stabili ma capace di cogliere le minime variazioni e gli scostamenti periodici. Un modello che ricalca il sistema InfluNet in Lombardia per l’influenza: una rete di medici di medicina generale che si sono resi disponibili a fare rilevazioni supplementari, con una campionatura statisticamente significativa e pensata, cioè non volontaristica e senza criterio.

Le diseguaglianze tra i territori e la mobilità sanitaria sono un altro nodo che si intende sciogliere. Basta spendere di più per colmare i divari nei livelli di assistenza?

I divari devono essere colmati, non c’è dubbio, ma lo si può fare solo creando reali punti di offerta equivalenti: non con risorse, quindi, ma per competenza. Il sapere medico è lento da acquisire, certi gap si recuperano in 5, 10 o 20 anni, non prima.

E il blocco della mobilità sanitaria?

La mobilità già oggi fa i conti con i tetti, rigidi, stabiliti nel 2011 e mai più aggiornati, in base ai quali qualsiasi prestazione che superi quel livello non viene riconosciuta.

Ma la mobilità passiva viene vista come una forma di impoverimento della regione che è costretta a cedere pazienti…

Adesso però in Lombardia si è creato il fenomeno inverso: abbiamo strutture abituate a gestire un flusso di pazienti da fuori regione imponente, che in termini economici valgono circa 600 milioni di ricavi. Ora, causa lockdown e la paura di venire in Lombardia e di contagiarsi, il flusso si è inaridito, si sta riprendendo adesso sulle prestazioni chirurgiche di alto livello. Alla fine dell’anno le strutture impegnate vedranno una perdita che qualcuno stima in 300 milioni di euro.

Dove vuole arrivare?

Se è vero che la capacità di attrarre implica una competenza su cui si sono investite risorse, è altrettanto vero che le regioni che cedono pazienti non sono attrezzate per queste prestazioni, quindi non devono far fronte a costi strutturali. Ma, di fatto, il blocco della mobilità significa che presumibilmente ci sono cittadini del Centro-Sud oggi sottocurati. Quindi, fatto salvo che ciascuno ha il diritto di essere curato vicino a casa, io resto favorevole alla mobilità sanitaria, perché avendo un Servizio sanitario nazionale è giusto che ogni cittadino italiano abbia la libertà di potersi far curare dove crede. Il blocco del 2011 è culturalmente sbagliato.

Nel piano Speranza non si fa cenno ad approcci sussidiari in sanità…

Questo effettivamente è un punto debole.

Un’ultima domanda: sui progetti verso cui far convergere le risorse del Recovery fund siete stati coinvolti?

Sarebbe molto utile che il ministero coinvolga le Regioni. Ma finora non è arrivata alcuna ipotesi di confronto e non c’è all’ordine del giorno da nessuna parte un incontro con il ministero.

(Marco Biscella)

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