Due proposte di modifica del Servizio sanitario nazionale (SSN) sono state recentemente depositate presso la commissione Affari Sociali della Camera dei deputati. La prima è del Partito Democratico (Schlein e altri) e propone di portare il Fondo sanitario nazionale (Fsn) al 7,5% del PIL; la seconda è del Movimento 5 Stelle (Quartini e altri) e propone di portare il Fsn al 8% del PIL.
Secondo il Documento di Economia e Finanza (DEF) recentemente approvato le risorse previste per l’anno 2024 per la sanità ammontano a 138.776 milioni di euro. Contemporaneamente la Corte dei Conti ci informa che secondo le sue stime gli italiani spendono di tasca propria per la sanità ulteriori 40-45 miliardi di euro. Infine i confronti internazionali avvertono che l’Italia mette nel servizio sanitario meno risorse di altre nazioni solitamente prese a paragone (Germania, Francia, …) o confinanti (Svizzera, Austria).
Ne emerge un quadro, nel quale non si registrano voci discordanti, di una sanità o, meglio, di un servizio sanitario, che avrebbe bisogno di più risorse. Facile a dirsi (piacerebbe a tutti avere risorse adeguate per affrontare tutti i bisogni sanitari e socio-sanitari come si deve), un po’ meno a farsi, tanto che tutti quelli che lamentano la mancanza di fondi di fatto non avanzano proposte precise su come provvedere.
Giusto a titolo di esempio, entrambe le proposte appena avanzate (PD, M5S) contengono un articolo (l’ultimo) relativo alla copertura finanziaria, nella forma che segue.
Proposta PD: “si provvede a valere sulle maggiori risorse derivanti dalla crescita economica prevista dai documenti di programmazione economica e finanziaria”; e se la crescita non garantisce le risorse necessarie “vengono individuati e resi operativi meccanismi e misure aggiuntive di contrasto dell’evasione ed elusione fiscale e contributiva”
Proposta M5S: “si provvede mediante interventi di razionalizzazione e di revisione della spesa pubblica … che assicurino minori spese”; e se non si riesce attraverso questa strada (o non basta) “Sono disposte le variazioni delle aliquote di imposta e la riduzione delle agevolazioni e delle detrazioni vigenti”.
La genericità di entrambe le proposte, che tradotte in soldoni dicono che di risorse non ce ne sono e non si sa dove trovarle, impone una riflessione attorno ad una domanda: nell’ipotesi (da tanti formulata) di un auspicabile aumento delle risorse economiche da dedicare alla sanità, dove possono essere reperite queste risorse? Senza alcuna intenzione di sostituirsi al governo che ne ha il compito, nel seguito si prova ad elencare le possibilità che ci sono (almeno le più rilevanti) per incrementare il fondo sanitario.
Primo capitolo: aumento delle entrate. Molte sono le strade attraverso le quali lo Stato può dar luogo ad un aumento complessivo delle entrate, tutte o in parte poi destinabili al comparto sanitario.
Lotta all’evasione fiscale. Stimata in 85-90 miliardi di euro ogni anno (ma sarà vero?) l’evasione fiscale (e già che ci siamo mettiamoci anche l’elusione contributiva) è una piaga che (almeno a parole) tutti i governi vogliono combattere. A giudicare dagli scarsi risultati pratici che si ottengono si deve però concludere o che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” (segnalando così che il problema si collocherebbe nell’insufficiente impegno dei governi sul tema) o che la lotta all’evasione (ed elusione) fiscale è una battaglia dura, difficile, poco foriera di successi, e quindi poco promettente in termini di risultati economici apprezzabili.
Ergo: appoggiare l’incremento del fondo sanitario ad un aumento delle entrate per la porta della lotta all’evasione/elusione fiscale, per quanto immagino sia una soluzione condivisa, non sembra far prevedere facili successi.
Sempre in termini di entrate si può pensare ad un aumento generale della tassazione. Approccio sgradito a tutti i governi (ed ancor di più ai cittadini, ovviamente) che di solito dicono di volersi muovere “in direzione ostinata e contraria” (come cantava un noto cantautore genovese), questo percorso risulta poco proponibile per le tante controindicazioni che ha, a cominciare dal complesso sistema di tassazione che caratterizza il nostro paese (vedi evasione fiscale, lavoro nero, disequità tra lavoratori salariati e non, …) e dal ritenuto già molto pesante carico fiscale (rispetto ad altre nazioni: anche se mi risulta che francesi e tedeschi, ad esempio, paghino più tasse) che grava oggi sui cittadini, per arrivare alle evidenti ricadute politiche negative che avrebbe un tale approccio. Quindi? Niet anche per questa strada.
Non è inutile, poi, ricordare che il nostro paese è costretto a sperperare una enorme quantità di fondi per far fronte agli interessi legati all’enorme debito pubblico che abbiamo accumulato: circa 80 miliardi di interessi nel 2022 (contro i poco meno di 30 della Germania ed i 50 della Francia), una parte dei quali avrebbe potuto essere utilizzata per la sanità. Non solo, è bene ricordare anche che già adesso una parte del Ssn è finanziato a debito: circa 10 miliardi per quest’anno.
Anziché ad un aumento generalizzato delle tasse si può pensare ad una (o più) tassa “di scopo”, cioè una tassazione finalizzata a raggiungere specifici obiettivi. Questi obiettivi dovrebbero rappresentare qualcosa di virtuoso per giustificare un ennesimo prelievo dalle tasche dei cittadini, come ad esempio il disincentivo di comportamenti ritenuti discutibili o dannosi (cattive, per la salute, abitudini di vita, la rinuncia a comportamenti preventivi come gli screening, …). Una tassa di scopo di questo tipo entra evidentemente in competizione con altri valori (libertà di scelta, soddisfazione personale, …) o atteggiamenti (si pensi al recente comportamento dei no-vax, ma non solo, sul tema vaccini), e può creare ulteriori iniquità anche perché i cattivi/dannosi comportamenti e le abitudini negative per la salute si associano spesso con situazioni e condizioni sociali deprivate e con una presenza maggiore di problemi sanitari.
Non solo, ma è facile immaginare che un percorso di questo tipo si presenti complicato nella realizzazione pratica: come definire i comportamenti discutibili (tutti, solo alcuni, …), come rilevarli, come definire la tassazione perché il volume economico da raccogliere assuma una certa consistenza, etc.
Compartecipazione alla spesa. Ad oggi il ticket corrisposto dai cittadini vale tra 3 e 4 miliardi di euro, quasi equamente divisi tra consumi farmaceutici e prestazioni di specialistica ambulatoriale. Non è una quota complessivamente molto elevata, ma si può pensare ad un intervento su di essa in due direzioni: da una parte un aumento del valore degli attuali ticket, dall’altra una diminuzione delle attuali esenzioni. Anche questa proposta va studiata per non creare iniquità o per non indurre una rinuncia alle cure, ma sembra più facile, più praticabile delle precedenti, sebbene il suo effetto quantitativo appaia limitato, a meno che le modificazioni da introdurre siano rilevanti (raddoppio o triplicazione della attuale raccolta). Naturalmente possono essere pensate e valutate ulteriori proposte per aumentare le entrate complessive o quelle specifiche per la sanità.
Secondo capitolo. Come secondo percorso per trovare risorse aggiuntive per la sanità si può ipotizzare una distribuzione diversa dalla attuale delle risorse raccolte dallo Stato. Per capire come può funzionare questa proposta si osservino i numeri che seguono. La spesa per le pensioni è vicina a 330 miliardi di euro all’anno, in crescita, ed è il complesso di spese più elevato che dà conto del privilegio che il nostro paese, rispetto ad altri, ha assegnato al sistema pensionistico. A parte le pensioni, secondo il bilancio di previsione dello Stato per il 2024 il contesto del lavoro e delle politiche sociali spenderà oltre 200 miliardi di euro, seguito dall’istruzione (50 miliardi), dall’interno e dalla difesa (30 mld a testa), infrastrutture e trasporti (20 mld), università e ricerca (14 mld), giustizia (11 mld), e via via tutti gli altri comparti con spese sempre minori. Da questo elenco è stata esclusa la sanità (quasi 140 mld), ma anche economia e finanze (820 mld) per via dell’ampio ed eterogeneo spettro di interventi cui il settore provvede.
Una proposta potrebbe essere quella di pensare ad una diversa distribuzione di queste spese per favorire il comparto sanitario. È evidente che questa ridistribuzione significa togliere peso (cioè spesa) ad altri settori per aggiungere risorse alla sanità, scelta chiaramente di natura politica e che non sarà gradita dai contesti che si vedranno diminuite le risorse a disposizione. In proposito, l’accenno più frequente è alla riduzione delle spese per la difesa, ma il bilancio complessivo del settore (30 mld) dice che se si segue questa strada non si potrà di certo ottenere molto.
Terzo capitolo. Riduzione delle spese sanitarie. Se il primo ed il secondo capitolo non vengono agiti significa che non si è in grado di (o non si vogliono) aumentare le entrate: si deve allora guardare l’altra faccia del bilancio e pensare ad un miglioramento del governo delle spese mirato ad una loro riduzione. Anche questo è un risultato che può essere raggiunto seguendo diverse strade.
Si pensi innanzitutto alla medicina difensiva ed ai costi, stimati in circa 20 miliardi di euro, che questo atteggiamento porta all’interno del SSN. Difficile dire attraverso quali provvedimenti si possa intervenire per calmierare (o eliminare) questa tipologia di spesa, che trova la sua ragion d’essere prevalentemente nelle cause giudiziarie intentate dai cittadini soprattutto nei confronti del personale sanitario. Una riflessione sul ruolo della “colpa” e della “responsabilità” in ambito sanitario si impone.
C’è poi il grande tema della inappropriatezza erogativa, esplicitamente evidenziato anche dall’attuale Ministro della salute e sul quale si sono già proposte osservazioni anche quantitative in altro contesto. Il tema si sovrappone, almeno in parte, con quello della medicina difensiva, ma è argomento che trova motivazioni e stimoli anche in altri oggetti. Si pensi, ad esempio, al pagamento a prestazione delle attività sanitarie agli erogatori del SSN (pubblici e privati accreditati), approccio che se mal gestito e mal (o non) controllato può portare all’incremento della spesa per via della moltiplicazione non necessaria delle prestazioni erogate.
Sempre in tema di riduzione della spesa sanitaria si deve affrontare il problema della efficienza delle strutture pubbliche (questione che ovviamente non si pone per le strutture private accreditate). In questo caso aneddoti, esempi, e dati si sprecano, ma resta il fatto che l’inefficienza erogativa, che deve essere valutata nello specifico situazione per situazione, porta ad un cattivo uso delle risorse a disposizione e quindi ad un aumento della spesa.
Sempre in tema di (in)efficienza merita segnalare il caso del difficile rapporto tra ospedale e territorio, con il primo (ospedale) che si sobbarca eccessi di costi (causati da giornate di degenza inappropriate) perché il secondo (territorio) non riesce ad assorbire le dimissioni che il primo sarebbe pronto ad effettuare oppure invia all’ospedale pazienti che potrebbero invece essere assistiti in altra maniera o da altri attori (esempio: ricoveri “sociali”, ricoveri per alcune selezionate patologie negli adulti come asma, BPCO, insufficienza cardiaca congestizia).
Fin qui sono state presentate tre strade che agiscono tutte dal punto di vista economico, vuoi nel tentativo di aumentare le entrate o, viceversa, di diminuire le uscite. E se queste strategie risultassero inefficaci, o inapplicabili, o insufficienti, cos’altro si può fare? Nessuno lo dice, ma questo scenario, anche alla luce di quello che è successo in questi ultimi decenni di SSN che hanno visto l’alternarsi di governi di differente colore, è di gran lunga quello più probabile. Se non si possono aumentare le risorse (o diminuire le spese) non ci resta che ridurre i servizi che vengono erogati. E’ una prospettiva che evidentemente non piace né ai cittadini né ai loro rappresentanti (di governo o di opposizione), ma è una prospettiva già in atto se consideriamo i 40-45 miliardi di euro spesi di tasca propria che i cittadini già ora utilizzano per curarsi.
Naturalmente le diverse proposte evocate non sono alternative tra di loro ed è anche facilmente ipotizzabile un mix di interventi al fine di raggiungere il volume economico che si ritiene di destinare al servizio sanitario.
Se la prospettiva diventa però quella della riduzione dei servizi allora il problema cambia natura: non si tratta più di una questione di risorse (da aumentare) ma diventa una questione di diritti (da regolare). A cosa siamo disposti a rinunciare? Nel rispondere a questa domanda, diversamente da oggi dove la risposta è legata alle risorse individuali, cioè alla ricchezza (e quindi iniqua e diseguale), è importante che le possibili soluzioni siano frutto di scelte esplicite, di priorità identificate, e non siano il risultato di fenomeni di iniquità, di un razionamento implicito o dettato dal caso o dalla capacità individuale di destreggiarsi nel mare magnum della nostra burocrazia.
Alla luce di quanto si è qui scritto forse si capisce perché sono in molti a lamentarsi che in sanità mancano risorse e che bisogna metterne di più, ma non si vede qualcuno che dica da dove e come vanno prese le risorse (tante o poche) che servono, o come si trova la quadra tra risorse e servizi. Non sarà elegante ma viene proprio da pensare al titolo di un libro di un noto comico savonese: “son tutti finocchi col c* degli altri”.
Tutto ciò premesso c’è ancora una soluzione del tutto alternativa: basta diventare più ricchi perché, come dimostrano tutte le analisi (anche quelle pubblicate su Il Sussidiario), i paesi più ricchi mettono più soldi in sanità. Semplice, no? E allora si faccia avanti chi ha delle proposte: no illusionisti, maghi, o millantatori.
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