Seguendo l’interessante incontro tenuto al Meeting di Rimini dal titolo “La sfida del Covid” con la presenza del ministro Speranza, sono emerse questioni interessanti ma, lo dico da medico ospedaliero, molto altro poteva essere menzionato e non lo è stato.

Sul Covid è ormai stato detto tutto ed a volte anche troppo, direi che l’argomento è saturo. Ma qualcosa va ancora detto per capire meglio il presente.



Abbiamo tutti ancora negli occhi e nel cuore i giorni tumultuosi dello Tsunami sanitario, di cui la famosa foto dell’infermiera esausta ed addormentata è il simbolo riconosciuto, assieme agli scafandri di pazienti e sanitari, e al dramma delle bare e delle morti solitarie.

O l’incredibile dedizione di medici ed infermieri che non si sono sottratti, di persone normali che hanno tirato fuori una forza ed una decisione insospettabili, persone su cui forse, in altri tempi, nessuno avrebbe puntato e che si sono rivelate coraggiose e generose oltre misura. Ho ancora negli occhi i racconti di chi, madre di famiglia, lavorando come infermiera o dottoressa, ha accettato settimane da separata in casa, senza poter ricevere l’abbraccio dei figli e del marito, nella solitudine di una quarantena che si era imposta per tutelare i propri cari e i pazienti. Di chi è andato volontariamente a lavorare in reparti diversi da quello di sua competenza, seguendo con umiltà e dedizione infermiere e medici più giovani. Di chi per ore, vestito con scafandri pesanti, sudava e rimandava i pasti fino a fine turno, inventandosi modi per far comunicare i pazienti con i propri cari lontani. Di reparti scomparsi dalla sera alla mattina per trasformarsi in rianimazioni, in degenze Covid, in letti per subacuti, in riabilitazioni polmonari, in centri vaccinali con migliaia di accessi.



Da dove nasce questa grandezza? mi chiedevo in quei giorni terribili.

Ma qui siamo molto lontani dalla retorica dell’eroe, qui parliamo di persone, di vita quotidiana, di madri, di padri, di giovani infermiere neoassunte. La loro forza nasceva dal vivere a fondo la propria umanità, niente di più. Niente di eccezionale, solo l’infinita grandezza del cuore umano, a cui spesso imponiamo limiti, ma che, se lasciato libero, stupisce addirittura noi stessi. Abbiamo un tesoro che spesso teniamo nascosto.

Ora tutto questo è alle spalle. O quasi.

Il Covid è stato, ed è, un avversario coriaceo e non ha ancora sventolato bandiera bianca. Varianti, risalite, nuove ondate, vaccinazioni da completare, ancora il bollettino quotidiano dei morti che non è mai uguale a zero.



Intanto, mentre la notizia Covid ha perso parecchie posizioni nei telegiornali ed i virologi sono stati scalzati dapprima da esperti di guerra e politica internazionale poi dai soliti politici in campagna elettorale, negli ospedali la vita recupera il suo corso. I reparti sconvolti hanno ripreso le proprie tradizionali attività, apparentemente come se nulla fosse, ma nel cuore, nella mente e nella coscienza di chi ci lavora sono ancora presenti sconvolgimenti di difficile diagnosi. Chi ha passato tutto questo fa ancora fatica a dare un nome al disagio residuo, non è a suo agio con il senso delle giornate spese in corsie o nelle sale operatorie.

C’è qualcosa di non risolto che serpeggia e di cui chi governa la sanità a tutti i livelli non sembra accorgersene. Eppure, i sintomi sono evidenti e tipici: dimissioni di medici ed infermieri che raggiungono livelli mai visti, nuclei storici di infermieri dello stesso reparto che si sono dissolti, turnover velocissimi di qualche mese seguiti dalle dimissioni; sembra non esserci più l’energia per affrontare di nuovo la normalità dei turni, delle notti, dei festivi; le motivazioni alla base della professione (aiuto a chi soffre, solidarietà, cura, compassione umana, etc.) non reggono più a distanza di anni. Vengono preferite mansioni meno nobili ma più tranquille (turni di vaccinazioni, ambulatori, part-time, ufficio). Ho visto sparire decine di infermiere e di colleghi dai reparti e chi rimane sembra spesso in balia di un burn-out poco rimediabile. Professionisti che hanno speso tutte le loro energie nella trincea anti-Covid, sono ora alla perenne ricerca di ferie e riposi. Per non parlare delle malattie. Molti a fine carriera hanno raggiunto di corsa, anche con scorciatoie, la pensione, creando così un gap generazionale tra i pochi esperti rimasti ed i giovani ingaggiati con criteri di necessità (assunzioni di specializzandi anche al terzo anno) e lasciati con responsabilità più grandi di loro.

I commenti ricorrenti negli ospedali sono di sconforto e di lamento, anche perché il tema di recuperare le prestazioni perdute in tempo Covid si è fatto prepotente: le Regioni impongono target di attività superiori di almeno il 10% rispetto al 2019. Ci sono migliaia di interventi, di esami, di prestazioni rimaste insoddisfatte e lista d’attesa che si allungano. Per far fronte a questo si richiedono turni aggiuntivi a gettone, prestazioni extra, abolizione dei riposi. Il tutto con personale in costante calo. Una mia collega ha risposta alla domanda: perché ti vuoi licenziare? affermando di preferire uno stipendio della metà ma con turni meno impegnativi e assenza di reperibilità rispetto al contrario.

Inutile aggiungere che l’esplosione della sanità privata ha facilitato questo travaso. Il dialogo con molti sanitari non più motivati mi ha creato un senso di sconforto iniziale, acuito dall’aumento dell’impegno che anche a me è richiesto. Il ritmo è per tutti decisamente pesante: ferie e riposi saltati per far fronte ai turni e alla mancanza di personale.

Ma fermiamo qui la lista delle pur reali lamentazioni.

E affrontiamo per primo il piano personale: questo disagio, dopo momenti di smarrimento, mi ha posto evidenti domande, anche perché non tutti vivono così.

Subire, scappare o accettare? O altro? Lavorare per la causa dell’Azienda (così si chiamano gli ospedali adesso) o per me stesso e per i pazienti riscoprendo un senso (che è sempre presente nel nostro lavoro) che ci ridà il gusto delle attività e dei rapporti? Mi sono accorto che guardo con una certa invidia chi riesce a vivere con letizia e con entusiasmo la giornata, fosse anche l’ultimo arrivato. Perché vorrei assomigliargli.

Mi rendo conto che questa è la chiave per liberare il buono che c’è in noi: verificare nell’istante che niente è inutile e che la domanda di cura, di guarigione e di accompagnamento che il paziente incarna, magari senza dirlo, va accolta generando un bene anche per me.

Il bene che trasmetto all’altro, la sofferenza che minimamente tento di alleviare, mi tolgono la fatica del lavoro. Quanto è più pesante e insopportabile un lavoro senza senso!

In fondo perché vorrei scappare? Cosa c’è di più umano che affrontare positivamente quel pezzo di mondo che mi trovo tra le mani?

Sul piano dell’organizzazione del lavoro, invece, penso che non ci siano ricette miracolose, ma che innanzitutto chi governa il sistema sanitario debba investire in modo deciso su quella che burocraticamente si definisce risorsa umana. Sull’infermiera, sul medico, sul tecnico sanitario. Il cosiddetto calcolo dei carichi di lavoro crea situazioni degenerate se non si ascolta la base, chi lavora in corsia di giorno e di notte. È necessario assumere nuovi medici e nuovi infermieri; paradossalmente meglio un medico in più ed una Tac in meno. La situazione dei Pronto Soccorso lo dimostra.

E ascoltare; girare i reparti, parlare con tutti, pazienti compresi, abbandonare spesso i nostri Pc dai rassicuranti monitor pieni di numerini che ci confortano e ci dimostrano che abbiamo ragione per scoprire la realtà.

Questa vale per tutti, anche per i direttori e gli assessori e, perché no? anche per il ministro. Lasciando sempre aperta la porta alle sorprese di cui la risorsa umana è incredibilmente capace.

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