Dopo 40 anni di vita professionale intensamente vissuta, come infermiera ed educatrice, con uno sguardo sempre puntato al “resto del mondo” e non solo al mio amatissimo Paese, non posso non intervenire a proposito del futuro assetto della sanità, non solo pensando alla regione Lombardia.

Concordo su tutti i punti presentati dal professor Vittadini nel suo ultimo editoriale perché li ho vissuti sulla mia pelle in tutti questi anni. Reagisco quindi, in particolare, a quanto ho letto in precedenti contributi comparsi sul vostro quotidiano nei giorni scorsi (Marco Magri e Callisto Bravi e altri) che mi ha a dir poco intristito.



Conoscendo le realtà sanitarie e assistenziali internazionali e avendo mantenuto i contatti con ex-studenti che stanno attualmente lavorando e hanno proseguito gli studi in altri paesi, la mia reazione istintiva è stata: “No! Ma siamo ancora a questo punto? È ancora troppo poco! È un pensiero vecchio! Se perdiamo anche questa occasione – portata ahimè tristemente alla luce dal Covid-19 – l’assistenza sanitaria in Italia non farà ancora il salto che urge più che mai”.



Pur essendo in linea con diversi punti presentati dagli autori, sono stupita nel constatare che non si riesca ad andare mai oltre il “già saputo”. Proprio perché (cito l’articolo del 28 gennaio) “La pandemia dimostra che nessuno può risolvere i temi della salute da solo”, come si pensa che l’approccio di cui si parla da trent’anni possa ancora bastare? Si crede veramente che bastino sedi adeguate con “team funzionali delle cure primarie (Mmg + infermiere + segretaria)”? Nel 2021 si pensa ancora a team guidati da “Mmg e il loro personale”? Mentre in altri paesi la pratica infermieristica avanzata è una realtà da più di vent’anni e, dove esisteva un ritardo, la pandemia ha fatto finalmente decollare il completo esercizio professionale degli infermieri, in Italia si resta ancorati a logiche ormai obsolete.



Non c’è spazio per molti esempi, ma almeno un cenno per far comprendere cosa intendo per “radicale cambiamento” è doveroso. In altri paesi è normale recarsi, per qualsiasi problema di salute e come prima scelta, presso lo studio di un infermiere debitamente formato e certificato, in grado di gestire in modo autonomo non solo i bisogni sanitari di base dei cittadini, ma di prescrivere farmaci oppure di indirizzare il paziente dal medico di medicina generale o, ancora, di inviarlo dallo specialista più idoneo fino a richiedere un eventuale ricovero ospedaliero.

E non solo: l’infermiere di distretto o di famiglia o di comunità ha rappresentato il perno centrale attorno al quale si sono sviluppati gran parte dei servizi sanitari in tutto il mondo. Sono proprio questi infermieri a operare in campo preventivo, nella promozione della salute e dell’educazione sanitaria, in modo da evitare il più possibile ricoveri ospedalieri oltre che mantenere in salute la popolazione.

Questo è stato l’intento dell’impulso dato alla Primary Health Care da parte del Who già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Tutto questo movimento culturale in Italia è stato tradotto (e ridotto) alle cure primarie, gestite esclusivamente da medici che, senza né il contributo né la valorizzazione di altre figure professionali (e quindi neppure della loro competenza di medici!), si sono trovati a operare da soli con un carico di lavoro sempre più grave.

Con tutta la stima per gli autori, invito a fare uno sforzo in più e – finalmente – a lasciarsi “contaminare” da idee e proposte nuove. La bibliografia è davvero ampia e i dati documentano inequivocabilmente dove indirizzare sforzi e risorse (per esempio, i dati Crea e Oecd del 2021 parlano chiaro). Se in Italia abbiamo 0,4 medici per 1.000 abitanti e 6,7 infermieri ogni mille abitanti contro i dati degli altri paesi europei – 3,7 medici per 1.000 e 9,4 infermieri ogni 1.000  abitanti –, significherà pure qualcosa. Nelle nostre unità operative ospedaliere un solo infermiere si trova ad assistere 9, 10 o 12 pazienti, con patologie e problematiche sempre più complesse.

Una collega mi diceva che a Oxford, nell’ospedale in cui presta servizio, hanno – come gli studi condotti in tutto il mondo raccomandano – un massimo di 6 pazienti nei reparti generali e 1:1 nelle terapie intensive (arrivano a un massimo di un infermiere ogni due pazienti). Ormai ci sono studi anche italiani che mostrano dati drammatici di mortalità associata allo scarso numero di infermieri (RN4Cast Italia, Università degli Studi di Genova); non abbiamo ancora visto alcun tipo di riconoscimento né sociale né economico (in questi mesi gli infermieri sono passati da “eroi” a “untori”); non solo non sono stati aumentati i posti per accedere ai corsi di laurea, ma le risorse attribuite alla formazione dei futuri infermieri continuano ad essere ridotte.

Qualcuno si sta rendendo conto che chiuderemo gli ospedali e le strutture sanitarie per mancanza di infermieri? Qualcuno sta riflettendo sul fatto che, specie dopo questo drammatico periodo, ci sarà un’ulteriore fuga di infermieri dagli ospedali al territorio, a un impiego ben remunerato e con sviluppo di carriera in altri Paesi, per non parlare di un vero e proprio esodo dalla professione?

Se si associa questa situazione all’aumento dell’età media e delle patologie croniche, e alla paurosa denatalità nel nostro paese, non si può che unire le energie e, finalmente think out of the box!