Un recente webinar, promosso da Medicina e Persona sul tema “Imputabilità, responsabilità e sicurezza”, è stata l’occasione per un interessante confronto tra le ragioni del mondo sanitario, in particolare della psichiatria, e quelle della magistratura. Non in astratto, ma nell’ambito delle domande poste dall’attuale momento di crisi e di emergenza di crescenti frizioni tra interventi sanitari e quadro legislativo.
Gli operatori infatti hanno ben presente una serie di contraddizioni che affliggono il sistema della salute mentale sia in tema di trattamento dei pazienti autori di reato, sia riguardo alle questioni della responsabilità e della sicurezza degli attori delle relazioni di cura. Più che in altri casi, l’omicidio della dr.ssa Barbara Capovani ha portato questi temi in primo piano e all’attenzione di un pubblico più vasto, non ultimi i decisori politici.
E’ auspicabile che il dibattito e l’attenzione suscitate non si spengano e si arrivi finalmente ad un cambiamento anche normativo che riesca almeno parzialmente ad affrontare i problemi che si pongono nel rapporto tra la legislazione e il lavoro sanitario. Problemi attualmente per nulla risolti, neppure per quanto riguarda i pazienti autori di reato dalla recente legge 81/2014. E che coinvolgono questioni di ampia portata, quali l’evoluzione del concetto di imputabilità, la definizione delle responsabilità in ordine alla cura e la custodia, ma anche il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e le sue procedure e, più in generale, le modalità per tutelare la sicurezza di tutti, come sempre più si osserva ad esempio negli interventi di pronto soccorso.
Vi è coinvolto un interesse generale, che deriva da un disagio esteso agli operatori e ai pazienti di tutto il campo sanitario e socio-sanitario: è possibile individuare una strada praticabile per dipanare la matassa di queste problematiche o meglio di ciascuna di esse? Vediamo di seguito alcune delle questioni aperte:
1) Ha ancora senso la normativa attuale sulla non imputabilità per “infermità mentale”? La visione “positivista” che la sottende (non dimentichiamo che le norme risalgono al codice Rocco, un’altra “era geologica” per la psichiatria) appare a molti anacronistica e dannosa. Vi sono almeno due proposte in parlamento: nella sostanza, una lega la “non imputabilità” praticamente al solo concetto di “psicosi” (Antoniozzi*), l’altra invece punta all’abolizione tout court del concetto di “non imputabilità”, delegando la gestione degli autori di reato con “fragilità psicosociale” ai dispositivi di attenuazione della pena o alla modulazione della stessa attraverso percorsi differenziati (Magi**). In altre parole, secondo queste proposte chiunque è chiamato a rispondere di un reato (parafrasando lo slogan basagliano: “la responsabilità è terapeutica”) e le condizioni di fragilità mentale influiscono su come scontare quella che resterebbe un “pena” e non un “trattamento sanitario”. Ovviamente il trattamento sanitario può essere intrapreso in modo contestuale e, se il paziente vi aderisce, anche alternativo alla pena stessa: qualcosa di simile avviene per i tossicodipendenti che hanno commesso reati e scontano la loro pena in carcere o in comunità. Però deve essere chiaro che se il soggetto può sottrarsi al “trattamento” (che deve essere sempre scelto), non può però sottrarsi alla pena, come qualunque altro cittadino. Una volta scontata la pena, che potrebbe essere non detentiva, non ci sarebbe più l’annoso problema di valutare la “pericolosità sociale”. Ora infatti, solo nel caso dei pazienti non imputabili per malattia mentale, accade che il paziente possa essere sottoposto – se valutato “pericoloso socialmente” – a misure restrittive anche per lunghissimi periodi e per reati non gravi, mentre un cittadino che compie anche gravi reati una volta scontata la pena è libero.
2) Il Trattamento sanitario obbligatorio così come è ha ancora senso? “I trattamenti sanitari sono di norma volontari”: questo è il nocciolo “rivoluzionario” della legge 180. Il TSO è dispositivo residuale e, forse proprio per quello, fu definito in modo generico, sia nelle condizioni per attuarlo (molto discrezionali, sempre esposte quindi a che qualcuno chieda conto del perché è stato fatto e, soprattutto, perché non è stato fatto), sia nella procedura di attuazione (chi, come, quando e fino a che punto usare l’”enforcement”: perché per avere un trattamento obbligatorio qualcuno deve obbligare un altro a fare ciò che non vuole). Forse è venuto il momento di chiarire meglio questi concetti, a beneficio dei pazienti e degli operatori. Il che, tra l’altro, contribuirebbe a sciogliere il nodo della c.d. “posizione di garanzia” del medico, che in alcuni casi ha assunto in psichiatria aspetti paradossali. Il fatto che in alcuni casi una alterazione psichica possa avere un ruolo nella genesi di un reato non vuol dire di per sé che il reato è stato commesso perché il paziente “è stato curato male”. Oppure, con un classico ragionamento “ex-post”, che al paziente che rifiutava il trattamento andava fatto un TSO e questo avrebbe impedito il reato. La prevenzione di un reato, da chiunque commesso, è in capo alle FF.OO., con le quali in determinati casi collaborano gli operatori sanitari, senza però sostituirsi ad esse.
3) Il problema della sicurezza degli operatori sanitari è un problema generale, ma le statistiche ci dicono come sia più rilevante in ambito di pronto soccorso e di salute mentale. Tutti dobbiamo aver presente che la violenza nasce anche dalle criticità del sistema sanitario e dalla sua debolezza nel dare risposte efficaci ai cittadini (nei Pronto soccorso e non solo). Tuttavia la tensione non può scaricarsi sul personale, che deve lavorare con la serenità di sentirsi tutelato dalla propria Azienda e dalle forze dell’ordine ed essere così in grado di fare al meglio il proprio lavoro. Per questo occorrono posizioni chiare da parte sia delle FF.OO. che delle Direzioni Aziendali (che ultimamente sono responsabili della sicurezza sul lavoro, della stesura e gestione dei Piani di Rischio per attività ospedaliere e territoriali). La de-escalation, le telecamere, le procedure aziendali (“essere sempre in due”) sono strumenti necessari ma insufficienti. Le FF.OO. debbono sentirsi coinvolte senza ambiguità nella gestione della sicurezza degli operatori specie durante le procedure non consensuali, dentro e fuori l’ospedale. Le aziende dal canto loro debbono garantire, attraverso personale specializzato e addestrato a questa funzione (stewards), la sicurezza dei luoghi di lavoro a rischio. All’operatore sanitario, pur responsabile dell’atto sanitario, non si può delegare totalmente la sicurezza propria e dell’altro nelle situazioni critiche.
Il campo psicosociale, quindi, rappresenta un ambito in cui le suddette criticità risultano solo più evidenti, ma in realtà coinvolgono l’intero sistema sanitario e sociosanitario e a ben vedere interagiscono con l’esercizio professionale di ogni operatore. A partire dal primo dei tre punti di cui sopra, che interroga sul nodo di fondo del rapporto tra la professione e la legge, con le infinite ambiguità della legislazione oscillanti tra l’estremo dell’imposizione della norma e l’altro dell’eccesso di delega. Aspetto che il secondo punto attualizza nelle svariate circostanze in cui il professionista, per stato di necessità o per zelo paternalistico, agisce a prescindere dal libero consenso del paziente (o lo riduce a mera formalità). Terzo e ultimo il tema della sicurezza degli operatori, sempre più diffusamente avvertito, in parallelo al problema (collegato) di servizi messi in crisi dalla crescente carenza di risorse.
Esistono soluzioni ipotizzabili per sciogliere questi nodi? Quali piste di lavoro percorrere?
Far parlare le esperienze, sia di chi cura casi complessi come i pazienti autori di reato, sia di chi si occupa dello stesso campo per i minori con bisogni spesso ancor più vasti.
Agire per legiferare coerentemente, a partire dalle proposte di legge in campo.
Rispondere alla crisi di risorse e di competenze dei servizi sanitari specie (ma non solo) di salute mentale, che a livello territoriale e residenziale sono sopraffatti dalla pressione dei casi giudiziari rispetto alle richieste dell’utenza volontaria.
Affrontare la contraddizione tra esigenze di cure, tendenza alla sanitarizzazione dei bisogni, tutela della sicurezza (che necessita comunque di tempestive misure idonee).