Un interessante lavoro fatto dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato permette di paragonare alcune caratteristiche del nostro servizio sanitario con quelle del servizio di altri Paesi e di proporre alcune considerazioni su dati che possono risultare sorprendenti. Il dossier dell’ufficio del Senato è stato predisposto con “lo scopo di fornire elementi utili a valutare lo stato di salute del servizio sanitario italiano a 45 anni dalla sua nascita: lo inquadra nell’ottica dei principali modelli organizzativi adottati nell’area Ocse (Beveridge, Bismarck, privatistico) e attraverso una serie di indicatori oggettivi (risorse a disposizione, performance, stili di vita) fornisce elementi di valutazione circa l’efficacia del modello italiano rispetto a quelli di Canada, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti e Svezia”.
Dopo aver ricordato che il modello Bismarck fa riferimento a “sistemi sanitari fondati su una struttura di tipo mutualistico-assicurativo”, come in Belgio, Francia, Germania, e nel nostro Paese prima del 1978; che il modello Beveridge, invece, è qualificato da un “sistema a struttura pubblica, il cui prototipo è il modello di welfare state universalistico”, come in Italia dopo il 1978, nel Regno Unito, e nei Paesi scandinavi; e che il modello privatistico è quello “nel quale il meccanismo di finanziamento principale è l’assicurazione volontaria”, il dossier presenta i valori di una serie di indicatori afferenti a tre aree di valutazione (le risorse a disposizione: spesa, letti ospedalieri, personale; la qualità delle prestazioni erogate in termini di efficacia; la prevenzione letta attraverso alcuni stili di vita) e per ogni indicatore descrive i valori riscontrati negli otto Paesi allo studio, con una attenzione particolare ovviamente alla posizione dell’Italia. Gli indicatori valutati e i valori riscontrati sono riportati nella tabella che segue, dati che il dossier ha preso da tre fonti: Oecd Health Statistics, Who Global Health Observatory e Who Global Health Estimates.
Il dossier non presenta una valutazione complessiva o di insieme, anche se dai dati di tabella e dai commenti sui singoli indicatori emerge che Italia e Spagna spendono meno degli altri Paesi, hanno più medici e meno infermieri rispetto agli altri, hanno esiti migliori per diverse patologie, una mortalità generale più bassa e una attesa di vita alla nascita più alta, delle abitudini di vita più sane (meno alcol e meno fumo).
Fin qui tutto bene: il dossier è un tipico lavoro di valutazione descrittiva di alcuni selezionati aspetti del Ssn letti nell’ottica del confronto internazionale, con diversi risultati già noti e altri meno conosciuti, solo che la semplice descrizione delle singole variabili lascia necessariamente insoddisfatti, soprattutto se si ha l’abitudine di lasciarsi interrogare dai dati ponendosi di fronte ad essi con curiosità e voglia di conoscere ed approfondire, e magari anche con in testa qualche ipotesi da sottoporre a verifica.
È così che è nato un piccolo viaggio nei numeri che può essere interessante raccontare. Partendo dai dati del dossier (tabella 1) è venuto spontaneo mettere in relazione gli indicatori economici e di risorse con quelli di esito. A titolo di esempio la figura 1 riporta la relazione tra il tasso standardizzato di mortalità e la spesa sanitaria pro-capite.
Come si può osservare la relazione appare lineare e piuttosto forte (R 2 =0,89) e indica che quando la mortalità cresce anche la spesa sanitaria pro-capite cresce. Lo scambio degli assi, che non modifica la qualità della relazione, sembra meno logico perché suggerirebbe l’idea che più si spende e più aumenta la mortalità (è il classico dilemma di chi è il cavallo e chi è il carro). Risultato analogo si ottiene con i dati del dossier se al tasso di mortalità si sostituisce l’attesa di vita alla nascita: quando l’attesa di vita è minore la spesa pro-capite è più elevata.
A questo punto però comincia a insinuarsi il sospetto: secondo i dati del dossier vi sarebbe una relazione positiva (diretta) tra spesa sanitaria pro-capite e mortalità (più spesa, più mortalità), inducendo quindi l’idea che chi ha più risorse da investire in sanità (più spesa) ha una salute peggiore (più mortalità), un risultato del tutto opposto alla letteratura consolidata secondo la quale, in modo uniforme e senza eccezioni, la mortalità è inversamente correlata alla ricchezza: maggiore ricchezza, minore mortalità. Risultato quindi sorprendente?
Meglio approfondire. Innanzitutto, poiché la spesa sanitaria pro-capite non è di per sé un indicatore di ricchezza, si è andati alla ricerca del Pil (Prodotto lnterno lordo) pro-capite, indicatore sicuramente più adeguato, ma per le nazioni considerate nel dossier il risultato non è cambiato: relazione ancora lineare tra maggiore ricchezza e maggiore mortalità. Il sospetto aumenta, ma anche la voglia di approfondire: come? Forse che il risultato dipende dalla scelta delle nazioni?
Per seguire questa strada ed esplorare l’ipotesi appena formulata occorre uscire dai soli dati del dossier e cercare altre nazioni, e per non allontanarci troppo logicamente ci si è rivolti alla stessa fonte informativa (Oecd Health Statistics) selezionando tutte le nazioni europee presenti nell’archivio e anche il Canada e gli Usa. In questo modo si è costruito un campione di nazioni più ampio all’interno del quale erano compresi tutti gli Stati analizzati nel dossier, e per evitare gli eventuali effetti distorsivi dovuti alla pandemia di Sars-CoV-2 sono stati utilizzati i dati dell’anno 2019, che è anche l’ultimo disponibile per la mortalità. I risultati riferiti al tasso di mortalità e al Pil pro-capite sono rappresentati in figura 2. Analogo risultato si è ottenuto sostituendo alla mortalità l’attesa di vita alla nascita, visivamente speculare, ovviamente perché maggiore mortalità corrisponde a minore attesa di vita.
Cosa dice la figura 2? In sostanza conferma le conclusioni a cui è giunta la letteratura, e dice che chi è più ricco muore di meno, ma suggerisce anche la presenza di una doppia popolazione: per il gruppo di nazioni con un Pil pro-capite inferiore a circa 29.000 dollari vi è una forte relazione inversa tra ricchezza e mortalità (minore Pil pro-capite, maggiore mortalità); per il gruppo di nazioni con Pil pro-capite superiore, invece, permane una leggerissima tendenza alla riduzione della mortalità, per cui oltre i 30.000 dollari di Pil pro-capite la mortalità è praticamente costante.
Possiamo dire che così adesso i conti tornano con la letteratura. Ma se stanno così le cose, come la mettiamo con i risultati presenti nel dossier del Senato? Sono sbagliati? La risposta è no, perché la spiegazione è molto più semplice ed emerge evidente nella successiva figura 3, dove le nazioni considerate nel dossier sono rappresentate con un quadretto rosso: si tratta di un sottogruppo di nazioni che quando sono considerate da sole producono come andamento la linea indicata in verde, che dice appunto che al crescere della ricchezza cresce la mortalità. Per rimanere nella saggezza popolare avremmo preso “lucciole per lanterne” o, se si preferisce, confuso “Roma per toma”.
L’esercizio suggerisce da una parte l’interesse che possono rivestire i confronti internazionali (non c’è nulla di sbagliato in quanto raccontato nel dossier del Senato) da valutare con la necessaria prudenza come abbiamo scritto in un altro contributo, ma dall’altra dice anche l’attenzione e l’approfondimento con cui devono essere condotte le analisi e le valutazioni, perché è facile (come l’esempio dimostra) lasciarsi condurre su strade sbagliate e raggiungere destinazioni improbabili.
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