Dato che è piuttosto improbabile, almeno a parere di chi scrive, che venga immessa nel Servizio sanitario nazionale (SSN) una sostanziosa quantità di risorse in aggiunta a quelle (da molti considerate insufficienti) che già ci sono; e dato che la scarsità di risorse è solo uno dei problemi che affliggono il SSN (anche se per risolvere gli altri alla fin fine servono comunque delle risorse); da un po’ di tempo scrivo da queste colonne che per la sanità è urgente un percorso di rifondazione complessiva (e non solo un’attività di riaggiustamento) di un SSN fondato quasi mezzo secolo fa, ma che non regge più di fronte alle nuove sfide che stiamo vivendo, generate soprattutto dalla transizione demografica che l’intero Paese sta sperimentando (pochi giovani, molti anziani, significativo allungamento della durata della vita), dall’emergere preponderante del tema della cronicità e della multimorbilità, dall’esplosione del bisogno sociosanitario in aggiunta a quello più tipicamente sanitario, nonché da un cambio di riferimento della organizzazione dell’offerta sanitaria che vede da una parte il rafforzamento del ruolo della medicina e dell’assistenza territoriale e dall’altra l’accorpamento dei presìdi ospedalieri in grandi centri di elevata specializzazione con la conseguente obsolescenza (o chiusura) di tanti (più o meno) piccoli nosocomi sparsi sul territorio. Significativo su questi temi è stato anche il recente intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio inviato in occasione della presentazione – presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica – del 7° Rapporto di GIMBE sul Servizio sanitario nazionale.



Rendere compatibile l’affronto dei vecchi e (soprattutto) dei nuovi bisogni con la limitatezza delle risorse non può ridursi al gioco della coperta corta, che tirata una volta da una parte e un’altra volta dall’altra non fa altro che, a turno, chiudere alcuni buchi ma contemporaneamente aprirne degli altri. La soluzione può essere solo quella di rifondare, cioè di ripartire di nuovo dalle fondamenta, da ciò cui oggi non si vuole rinunciare. Non a caso si è posto sul tavolo il tema dei principi fondamentali su cui si regge il SSN (universalismo, uguaglianza, equità); non a caso ci si è interrogati su cosa vuol dire oggi curare; e non a caso non si è seguita l’onda di chi continua esclusivamente a lamentarsi che le risorse sono poche, il personale manca e “sul ponte sventola bandiera bianca”.



In tale contesto un passaggio necessario, ed è quello di questo contributo, è una riflessione critica attorno ai livelli essenziali di assistenza (LEA), cioè quell’insieme di attività, servizi e prestazioni considerate essenziali (irrinunciabili) per realizzare in pratica il diritto enunciato dall’art. 32 della Costituzione. Stabiliti con il Dpcm 29 novembre 2011 e nella versione più recente con il Dpcm 12 gennaio 2017 (“Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’art.1, comma 7, del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”) i LEA di fatto sono un lungo elenco di attività sanitarie, sociosanitarie e financo sociali raggruppate in tre capitoli (prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera) e dettagliate nei tanti articoli ed allegati che compongono il provvedimento che li ha aggiornati. In aggiunta alla definizione dei LEA, sono stati messi a punto un sistema di indicatori e una metodologia di valutazione per arrivare a distinguere se una Regione raggiunge o non raggiunge nella loro erogazione un livello definito “sufficiente”.



È ovvio ipotizzare che, poiché per erogare i LEA occorrono delle risorse, sia stato predisposto un percorso per arrivare a definire quante risorse sono necessarie per garantire che i LEA siano erogati. Ma è così? Se si osserva da una parte che per moltissime attività (o gruppi di attività) non è stato definito un valore economico (tariffa, prezzo, costo, …) che le caratterizza e d’altra parte che non è stata condotta alcuna azione per stimare il bisogno o la domanda, per identificare quindi il volume delle attività da erogare, è evidente che nessuno è in grado di dire quante risorse servirebbero per erogare i LEA (bisognerebbe infatti fare la somma dei prodotti tra tariffa e volume per ogni attività, calcolo che non è fattibile perché mancano entrambi i termini del prodotto).

In effetti si è proceduto al contrario: in base a criteri che nulla hanno a che fare con i LEA, ogni anno viene prima definito l’ammontare delle risorse che lo Stato è disponibile a mettere in gioco (cioè il Fondo Sanitario Nazionale, e la sua ripartizione tra le Regioni) e poi si lascia alle Regioni la libertà di distribuire a piacimento le risorse alle singole attività LEA, con l’unica condizione che le Regioni risultino “sufficienti” nella erogazione all’esito della metodologia di valutazione, altrimenti interviene una penalizzazione economica.

A valle di questo percorso ci si deve per forza chiedere: ma le risorse messe a disposizione sono adeguate per erogare i LEA che abbiamo definito (Dpcm 12.1.2017)? Molti segnali permettono largamente di dubitarne. Eccone alcuni.

Esito della valutazione: da quando è stata attivata la metodologia di valutazione c’è un numeroso gruppo di Regioni (8 nel rapporto più recente) che non raggiunge la sufficienza, ed anche tra quelle giudicate sufficienti nessuna raggiunge il punteggio massimo, il che significa che in nessuna Regione l’erogazione dei LEA è completamente garantita, nemmeno in quelle ritenute migliori.

Tempi di attesa: se a causa dei lunghi tempi di attesa un cittadino è costretto a ritardare (o addirittura a rinunciare a) una cura essenziale o a doverla comperare con proprie risorse aggiuntive anziché con quelle del SSN, vuol dire che i LEA non sono del tutto erogati.

Migrazione sanitaria: il fenomeno per cui per mancanza di adeguata offerta di LEA si è costretti a migrare anche molto lontano dalla propria abitazione è un altro segnale che non c’è garanzia della erogazione dei LEA;

Prevenzione: è notoria la carenza in parecchie Regioni di molte delle attività LEA che ricadono in questo capitolo, a cominciare dall’offerta insufficiente di screening, di attività vaccinali, di prevenzione sui luoghi di lavoro, di promozione di stili di vita sani, e così via, tutte attività che per legge risultano essenziali ma che in molti territori difettano nell’erogazione.

Variabilità territoriale: l’enorme variabilità territoriale che si osserva nella erogazione di tutte le attività sanitarie (ricoveri, prestazioni ambulatoriali, consumo di farmaci, …) e soprattutto sociosanitarie (assistenza domiciliare integrata, residenzialità e semi-residenzialità per diverse tipologie di soggetti fragili, …), al di là di quella che è lecito aspettarsi per ragioni epidemiologiche, è indice che tali attività essenziali in alcune aree non sono garantite mentre in altre probabilmente eccedono l’essenzialità.

La mancanza (o insufficienza) di offerta, soprattutto di servizi sociosanitari essenziali (vedi il capo IV del Dpcm 12.1.2017), che si osserva in particolare nelle Regioni del Sud, è un altro dei segnali che l’essenzialità non è garantita.

E la lista degli esempi e dei segnali di mancata erogazione di servizi e prestazioni essenziali può continuare a lungo e va ben oltre la semplice valutazione fatta dal ministero per individuare le Regioni che non raggiungono la sufficienza nella erogazione dei LEA. E siccome per erogare queste attività occorrono risorse, o si ipotizza che le risorse disponibili sono adeguate ma sono utilizzate male a tal punto che lasciano inevasa una grande quantità di servizi e prestazioni essenziali (ed in questo caso bisognerebbe però indicare quanto vale lo spreco e dove sono localizzate le risorse sprecate); oppure si deve riconoscere che LEA e risorse sono solo lontani (anzi, molto lontani) parenti.

Chi scrive ritiene che siano presenti entrambi i fenomeni: è, cioè, certamente vera l’esistenza di uno spreco di risorse (inappropriatezza erogativa, medicina difensiva, inefficienza, …) ma è altrettanto evidente che anche senza sprechi le risorse messe a disposizione non sarebbero in grado di garantire l’erogazione completa dei LEA stabiliti per legge. Ad oggi il dibattito sul tema si è limitato a considerare il volume economico delle risorse richiedendo che tale volume si allinei verso l’alto raggiungendo quello che caratterizza le nazioni con le quali si è soliti paragonarsi (Francia, Germania, …), ma il punto critico è che nessuno è in grado di dire se con quei valori delle risorse si riesce a garantire l’erogazione degli attuali LEA. È un dibattito quindi monco, incompleto, parziale, perché non mette mai in discussione l’altro elemento che fa parte del problema, e cioè l’attuale definizione dei LEA (compresa la eventuale compartecipazione economica dei cittadini).

Se non vogliamo che i LEA finiscano con l’essere esclusivamente una lunga ed astratta (nel senso di teorica) lista di servizi e prestazioni erogabili con le risorse del SSN, come di fatto è oggi, utile solo per individuare esplicitamente ciò che non deve essere erogato con i fondi del servizio sanitario (esempio: parte dell’odontoiatria, medicina estetica, medicine alternative, …), il che significa superare quelli che oggi sono solo “livelli erogabili di assistenza” ed affrontare realmente il concetto di cosa è essenziale per il SSN, occorre che LEA e risorse divengano stretti parenti, e che l’equilibrio tra i due piatti della bilancia vada ritrovato rimettendo in discussione sia la definizione di cosa si deve intendere per livelli essenziali, sia la definizione delle risorse.

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