Non c’è bisogno di un’analisi particolarmente sofisticata per prendere coscienza dei due problemi che meglio rivelano lo stato di crisi del nostro sistema sanitario: la condizione, spesso drammatica, dei tempi di attesa in un qualunque Pronto soccorso e, analogamente, le lunghe file d’attesa, necessarie per avere una visita specialistica o per fare un’indagine diagnostica più accurata. La risposta al problema in questi ultimi anni è stata riassunta in questo modo: servono più medici, soprattutto più specialisti, quindi occorre aumentare il numero dei contratti che le scuole di specializzazione offrono ai neolaureati. Nell’arco degli ultimi cinque anni il loro numero si è praticamente raddoppiato.



Attualmente offrono 16.165 posti disponibili. Ma il problema delle file d’attesa sussiste ancora e, a sorpresa, sono rimasti vacanti 6.125 contratti, molti proprio nell’ambito della medicina di emergenza urgenza. Il 76% dei posti messi a bando: netto il peggioramento rispetto al 2022, quando i contratti non assegnati rappresentavano il 61%.  In numeri assoluti quest’anno ci saranno 128 specializzandi di emergenza-urgenza in meno, il che non potrà che aggravare l’attuale situazione nei Pronto Soccorso. Quindi i termini della domanda si spostano: perché i giovani neolaureati in medicina non vogliono fare i medici proprio in questa area? La carenza è tale che il posto di lavoro sarebbe certamente assicurato. Secondo alcune proiezioni tra cinque anni avremo solo due nuovi specialisti di medicina di emergenza per ogni provincia italiana, ossia 1 ogni 125mila abitanti. È facile immaginare il disagio che si creerà in ogni Pronto Soccorso, con una crescita esponenziale del malumore di pazienti e familiari, e con il rischio che si possano creare situazioni oggettivamente difficili da gestire.



Ma è lecito chiedersi anche perché siano stati rifiutati dai giovani medici i contratti previsti in alcune specializzazioni ben determinate, per le quali andrebbe fatta un’analisi concreta, evitando generalizzazioni.  Per esempio, tra le specializzazioni con meno appeal ci sono tutte quelle che riguardano la diagnostica di laboratorio: genetica medica, microbiologia, virologia, patologia clinica, anatomia patologica. E perfino farmacologia e tossicologia clinica, che sembrano erroneamente specializzazioni per farmacisti più che per medici. È come se nella percezione dei giovani medici si trattasse di attività più vicine alla sensibilità dei biologi, dei biotecnologi, dei farmacologi, che non a quella dei medici. Sulla medicina di comunità e cure primarie, con il 92% degli abbandoni, il problema è di ben altro tipo e riguarda l’effettiva occupabilità di questi giovani specialisti, dal momento che non possono esercitare la loro professione come medici di base, pur essendo specialisti in cure primarie, né nelle famose case di comunità, perché non ne sono state aperte a sufficienza e non sono stati disegnati profili di assunzione su misura per il loro curriculum.



Il 72% delle scelte mancate in cure palliative è in gran parte legato alla scarsa conoscenza di questa giovane specializzazione, mentre di fatto rappresenta una necessità assoluta sia negli hospice che nella medicina territoriale: per esempio nell’assistenza domiciliare o nelle stesse RSA. Il 51% delle mancate scelte in geriatria sorprende ancor più se si tiene conto dell’arrivo della legge 33/2023 destinata proprio agli anziani e alla non autosufficienza, in un Paese come il nostro che invecchia velocemente. Le cose peggiorano ulteriormente quando si considerano le specialità tipiche della salute pubblica, dall’Igiene e medicina preventiva alla epidemiologia e statistica medica. Evidentemente i nostri giovani medici, al momento della loro laurea, non hanno ancora compreso fino in fondo il valore e l’importanza dell’esercizio della professione in un campo così delicato, da cui per altro provengono poi la grande maggioranza dei direttori generali e dei manager della salute. Restano invece tra le specialità più ambite pediatria, cardiologia, dermatologia, oftalmologia, chirurgia plastica e ricostruttiva con una adesione che raggiunge e supera il 95%.

Interpretare questi dati non è facile, ma certamente va ampiamente rivisto il criterio di riparto dei contratti delle scuole di specializzazione, che non può essere fatto con un algoritmo inadeguato. Va rivista la qualità della formazione-informazione dei giovani medici, perché sembra che giunti al momento della laurea non apprezzino ancora sufficientemente l’ambito della medicina preventiva, né l’ambito della gestione della salute pubblica. Sembra, inoltre, che non considerino sufficientemente vicino alle aspirazioni di un medico l’ambito della diagnostica di laboratorio, che forse preferiscono delegare ad altri.

Ma probabilmente è anche nella dinamica dello stesso contratto di lavoro come specializzandi che vanno rivisti alcuni passaggi, per farne quanto prima dei professionisti in grado di assumere a pieno titolo le loro responsabilità. Per esempio, riducendo più velocemente la distanza tra specializzandi e dirigenti medici, con diritti-doveri modulati in un senso più stringente per entrambi e quindi con una retribuzione più adeguata alla responsabilità crescente di ognuno di loro. In un certo senso si tratta di impegnare gli specializzandi già come professionisti, cosa per altro già prevista dalla legge che permette di assumere gli specializzandi fin dagli ultimi anni della scuola di specializzazione.

Inoltre un giovane specializzando dell’area della medicina d’emergenza, esposto h24 a situazioni ad alta complessità, per una intrinseca criticità dettata dall’urgenza, è sottoposto a uno stress maggiore, e quindi ha diritto a una indennità aggiuntiva, così come i dirigenti medici dello stesso settore. Tanto più se si garantirà maggiore appropriatezza negli accessi al pronto soccorso e si riuscirà a riorientare molti pazienti verso le case di comunità e verso un impegno più e meglio organizzato dei medici di base, con una maggiore copertura nell’orario di accesso dei possibili malati.

E infine, tutti i medici e non solo i giovani medici, debbono contare su di un contesto organizzativo, almeno a livello ospedaliero, che garantisca maggiori e migliori condizioni di accoglienza ai pazienti, con l’impegno a soddisfare nel più breve tempo possibile le loro richieste di diagnosi e cura. Occorre tagliare di netto le lunghe file d’attesa, con lo stress aggiuntivo che comportano anche sul piano del disagio psicologico dei malati e delle loro famiglie, per questo servono risorse, ma non solo risorse economiche. Sono necessarie risorse culturali ed etico-deontologiche. È necessaria una migliore organizzazione nel team di presa in carico e di cura, con un pieno coinvolgimento di infermieri, Oss e personale amministrativo. Serve anche una maggiore e migliore collaborazione tra i due ministeri di riferimento e nel rapporto con la conferenza Stato-Regioni.

Ma è sul piano della formazione che i giovani medici possono migliorare il loro stile professionale, recuperando l’antica esperienza di studenti interni nelle aree di maggior interesse per loro. Paradossalmente l’attuale meccanismo di selezione per l’ammissione alle scuole di specializzazione sembra allontanarli da quell’esperienza pratica del tirocinio, che ha visto nascere e fiorire molte vocazioni a questa o quella specializzazione. Lo studente aveva una consapevolezza più organica di cosa avrebbe fatto e conosceva già gli elementi fondamentali del lavoro dello specialista in quell’area, il che gli consentiva di interagire con i colleghi senior e con i pazienti e i loro familiari decisamente meglio, una volta entrato nella specializzazione.

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