Se i numeri non sono un’opinione, i numeri hanno decretato il successo della prima serata di Sanremo 2020. E la seconda non può che essere andata meglio. Il miglior risultato degli ultimi 15 anni, uno schiacciante 52,20% di share, che spinge l’edizione numero 70 del festival nazionale della canzone verso il trionfo. Peccato per la De Santis, l’ex direttore di Rai1 sostituita la settima scorsa, che ha confezionato questo bel regalo al suo successore Coletta, che ovviamente continua, seduto in prima fila, a sbracciarsi per la gioia.



Ci deve essere in questa edizione targata Amadeus qualcosa di particolare che è piaciuto molto agli italiani che ieri sera erano seduti davanti alla Tv. Amadeus è un signor professionista, ma anche gli altri che hanno condiviso con lui la scena non sono da meno. Può sembrare una valutazione minimalista, ma erano anni che le presentazioni non erano così precise, i nomi scanditi con chiarezza, il ritmo era incalzante ma senza mettere sotto stress il pubblico dell’Ariston e quello a casa.



Le canzoni in gara non hanno scontentato nessuno, il menù ha continuato a offrire scelte per ogni gusto. Dalla sedicenne Tecla e la sua canzoncina di altri tempi, che sembra la reincarnazione della Cinquetti, a Irene Grandi, che sfrutta il testo per fare l’occhiolino – lei signora cinquantenne con le movenze di una ragazzina in discoteca – al popolo sterminato degli amici di Vasco. Un po’ come negli Stati Uniti continuano ogni anno a travestirsi da “amici di Elvis”. E poi la tutina di Achille Lauro, di cui parleremo per i prossimi anni, visto che celava una dotta citazione di San Francesco. Lo stesso Junior Cally, dopo tanta polemica, ha presentato una canzone gradevole.



Quella magia particolare rappresentata dal mix tra il nuovo festival e quello che abbiamo ognuno di noi in testa, si realizza ogni volta che sul palco sale una vecchia gloria. Tiziano Ferro, stretto nel suo doppio petto, o gli eterni Romina e Al Bano, che si fanno annunciare dalla figlia che sul quel palco ci era salita quando era ancora nella pancia della mamma. E poi Fiorello, l’additivo della Tv italiana, L’enzima in grado di trasformare ogni immangiabile brodaglia nel più buono minestrone della stagione.

Il momento più difficile della prima serata è toccato alla Diletta Leotta. Non potendo parlare di calcio, le è stato affidato un incomprensibile monologo sulla bellezza. Lei ha provato a dare un senso al suo discorso, coinvolgendo la nonna di 85 anni seduta in prima fila e mostrando il suo probabile volto fra 50 anni. Come sappiamo molta più fortuna ha avuto il bel discorso fatto da Rula Jebreal su un tema decisamente più concreto.

La seconda serata è stata la fotocopia della prima. Così Tiziano Ferro duetta con Massimo Ranieri la canzone più italiana degli italiani. E poi Zucchero e Gigi D’Alessio. Ma l’evento è la “Réunion” dei Ricchi e Poveri. L’Italia intera si è immedesimata nel pubblico dell’Ariston quando ha dedicato al quartetto la strameritata standing ovation alla carriera e ha cantato in coro la playlist più nazional-popolare che ci sia.

Le seconde dodici canzoni in gara sono state sopraffatte dal peso dello spettacolo e della storia del festival. Ormai il Festival di Sanremo è come la Juve, vince anche se non convince. Non vi sono più le resistenze culturali di una volta. Non c’è più quella insofferenza diffusa per questo infinito pot-pourri, che tiene insieme l’innovazione e la nostalgia, la provocazione con il gusto vintage per le cose consumate, la sinistra con la destra, l’impegno con la spensieratezza, il femminismo con il sovranismo.

Il festival non è la fotocopia dell’Italia, è l’Italia. In qualche modo ci racconta l’Italia del prossimo futuro, quello dove non prenderemo più una decisione, o le prenderemo tutte per non sbagliare. Così la seconda giornata si rivela rispetto alla prima eccessiva, relegando, se possibile, le canzoni in gara ancora più sullo sfondo. Questo accade anche per responsabilità di uno straboccante Fiorello, che si prende in continuazione la scena, impone fino allo sfinimento un nuovo tormentone, coniando “ismi” su ogni oggetto che gli passa davanti: così nasce il  fiorismo, il pallismo, il riccopoverismo.

Anche le donne presentatrici aumentano e diventano tre, tutte molto brave e precise. Agli ospiti cantanti si aggiungono addirittura Djokovic, di ritorno dagli open di Australia, con un simpatico siparietto sul mondo del tennis, e Paolo, il giovane chef colpito dalla sla, che presenta il suo inno alla vita.

Se il cantante simbolo della prima serata è stato Achille Lauro, per il testo della sua canzone ma soprattutto per la tutina francescana che ha indossato, la seconda serata è felicemente rappresentata da Elettra Lamborghini. La rotonda ragazzotta emiliana dal cognome evocativo e romboante, ha presentato una canzonetta orecchiabile e un po’ volgare – del resto lei stessa ha twittato poco prima di salire sul palco “mi sto cacando addosso!” – come quasi tutte le sue melodie estive, di rito sudamericano, che le hanno data una certa fama.

Lauro e Lamborghini sono l’espressione della nostra gioventù. Sanremo non poteva che mostrarceli. Mettendoli in bella mostra sul palco. Come tutte le mamme e i papà italiani appena li abbiamo riconosciuto come espressione di quella generazione a cui appartengono i nostri figli, abbiamo incominciato a difenderli, a giudicarli con molta generosità, ad apprezzare la loro capacità di proporre cose originali.

Così il festival quest’anno ha preso la strada giusta, cioè quella di unire il Paese, anche dal punto di vista generazionale. Così anche quelli che proprio non riescono a mandarlo giù, non se la sentono di attaccare e di deridere quello che è diventato il monumento italiano al nostro senso comune.

Anche noi siamo per la soluzione più saggia, che ridotta in parole povere, significa “ma chi c’è lo fa fare di criticare sempre”. Teniamoci il festival così com’è, perché ci risolve tante piccole contraddizioni. Perché ci ricorda come eravamo, e questo fa bene alla nostra sete di nostalgia. Perché ci dice pure cosa rischiamo di diventare, ed anche in questo caso non possiamo che prenderne atto e, fatalmente, condividere.