Ennio Flaiano nel libro “Diario degli errori” considerava il Festival di Sanremo uno spettacolo di vecchi, di gente che urla canzoni molto stupide e quasi tutte uguali. “Se la gioventù è questa, tenetevela”, scriveva Flaiano. I giovanissimi non guardano Sanremo dalla prima edizione del 1951, ne ho avuto conferma nel 2021 chiedendo ad alcuni ragazzi tra i quindici e i diciassette anni quanti artisti sanremesi seguivano sui social o ascoltavano su Spotify. Risposta: nessuno. Caro Ennio… questa volta i “nostri” giovani sono salvi, ma tu avevi ragione da vendere nonostante il Festival sia imprescindibile per questo Paese. Utile al settore musicale in evidente difficoltà e importante per la televisione perché la ricchezza è benedizione quando genera benessere nella vita di tutti.



Nella serata del venerdì il monologo di Alessandra Amoroso ci ha ricordato, non senza retorica, le maestranze dello spettacolo in difficoltà, mentre la Palombelli ha raccontato il suo rapporto con la figura paterna. Non era Franz Kafka mentre scriveva la lettera al padre e si è capito. 

Il Festival ha messo in scena l’inesistenza dei sessi in Achille Lauro. Ha diviso la platea televisiva, ricevendo lodi e anche critiche velenose, giudizi sommari espressi in rete con cinismo e disprezzo. Gli utenti sul web hanno occupato su Facebook uno spazio lasciato vuoto dai giornalisti musicali poco abituati a interagire con i lettori, preferiscono cinguettare in solitudine i loro “Osanna” a canzoni discutibili, senza diritto di replica perché loro sono loro e tu non sei nessuno.



Era il 2012 quando in un post su Facebook un utente allo sconosciuto Achille chiedeva: “Lauro se t’invitano a Sanremo che fai?”. Lui rispose candidamente: “Vado nudo e canto l’inno d’Italia”. Ha mantenuto la promessa. I suoi quadri presentati ogni sera a Sanremo sono come uno specchio in cui ognuno vede ciò che più odia di se stesso, ma i suoi detrattori non lo diranno mai. La povertà di San Francesco d’Assisi in Lauro riflette la nostra avidità e l’ossessione del possesso, l’ambiguità del glam rock stuzzica le perversioni di chi vuol far credere d’essere puro e casto, l’esaltazione del pop disgusta il pubblico colto di Sanremo abituato ad ascoltare i cori russi, la musica finto rock e il free jazz punk inglese. 



Lauro duetta con Fiorello e seppellisce il re del karaoke. Chiunque al suo fianco teme il peggio, il volto quasi spaventato di Emma non si scorda facilmente e l’imbarazzo di Fiorello ieri sera era evidente. Poi tanto qualcuno dirà l’esatto contrario, che il nazional popolare ha ucciso il punk di Achille, ecc. È il gioco di Sanremo, una guerra tra guelfi e ghibellini, un derby tra juventini e interisti, romanisti e laziali. Achille incarna l’estetica del rifiuto, funzionale al Festival che lo ha reso “bello” agli occhi di chi lo segue con interesse, “mostruoso” per chi desidera che un asteroide lo colpisca mortalmente. 

Achille rafforza l’idea della diversità di genere portata in scena da La Rappresentante di Lista, loro che hanno scritto con “Amare” il testo più bello della kermesse sanremese, quello con più luce in ogni singolo verso. C’è il modo tradizionale d’intendere la coppia di Coma_Cose che decidono di guardarsi negli occhi per l’intera durata dell’esibizione, la provocazione più forte della serata. Peccato per i fiori regalati agli artisti uomini e l’imbarazzante duetto di Fiorello e Amadeus con “Siamo donne” di Jo Squillo e Sabrina Salerno, inguardabili al fianco di Enzo Avitabile e i Bottari. Nel test di ammissione alla leva militare se dichiaravi che i fiori ti piacevano, finivi dritto dallo psicologo. I tempi cambiano. 

E per finire i giovani: vince Gaudiano con la canzone “Polvere da sparo” scritta per il padre scomparso due anni fa cui dedica la vittoria. Peccato per quel verso fastidioso: “Se non elaboro ancora il tuo lutto / È perché ho il metabolismo lento”. Meritava la vittoria Folcast, anche se la sua “Scopriti” somiglia drammaticamente a “Nothing Compares To You” scritta da Prince per Sinéad O’Connor. 

Amadeus invita sul palco tante donne, relegate sempre e comunque al ruolo di co-conduttrici come vuole la tradizione sanremese, mentre il virile Zlatan Ibrahimovic segna il territorio come fa un boss della ‘ndrangheta, il patriarcato è salvo. Tra tanto machismo a buon mercato, è emersa il direttore d’orchestra Beatrice Venezi, lei che ha contribuito alla selezione dei giovani e accompagnandoli sul palco a Sanremo. Ha mostrato un talento naturale per la televisione. Praticamente perfetta, sarebbe una scelta saggia affidarle la direzione artistica e la conduzione del Festival il prossimo anno. 

La religione mai come in questa edizione è stata ignorata. La spiritualità – al Festival come altrove – viene cantata sfruttando l’onda di un interesse collettivo. Fedez in ascensore spreca un segno della croce con Francesca Michielin in “Chiamami per nome”, tra le canzoni migliori del Festival insieme a “Bianca luce nera” degli Extraliscio con Davide Toffoli. Magari non vinceranno, però il successo di pubblico è garantito, la regola non scritta del Festival vuole che gli ultimi saranno i primi. 

Mentre scrivo, arriva la notizia della morte di Tony Hendra, autore di un libro meraviglioso “Padre Joe – L’uomo che ha salvato la mia anima” che parla di quei preti progressisti e padri citati da Colapesce e Dimartino in “Canzone leggerissima”, lì dove Dio appare bellicoso: “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore / Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche / Nel nome di un Dio che non viene fuori col temporale”. 

Il Festival termina alle due di notte, per fortuna non durerà per sempre. Presto torneremo a una vita più tranquilla, compiaciuti della sofferenza di averlo guardato fino all’alba.