“Ecco, la musica è finita/Gli amici se ne vanno/Che inutile serata”. A ripensare oggi alle parole targate Sanremo 1967 della coppia Ornella Vanoni-Umberto Bindi vengono quasi lacrime e brividi: riascoltarle adesso suona quasi come un’oscura profezia. Già, perché in un’Italia blindata per via del nuovo stop imposto urbi et orbi a eventi musicali, cinema, teatri, sagre e fiere, sentire ancora la Rai parlare del prossimo Festival della canzone italiana fa sorridere.



Sono stato il primo in Italia nel marzo scorso a denunciare la crisi dello showbusiness. A rilevare pubblicamente la totale insufficienza dell’articolo 89 del risibile decreto Cura-Italia per indennizzare i lavoratori dello spettacolo. I più colpiti dalla crisi. Come gli stagionali del turismo. Quelli più presi in giro. Beffati da una politica incapace che ha letteralmente fatto rotolare una pietra tombale, come al tempo di Cristo, sull’intero comparto dell’intrattenimento nazionale.



A quanto pare il Paese rinuncia a tutto, ma non a Sanremo 2021 (con Amadeus e Fiorello che giustamente temono l’assenza di pubblico in sala). E solo perché l’hanno deciso Marcello Luigi Foa e Fabrizio Salini, rispettivamente Presidente e AD di Rai Radiotelevisione Italiana S.p.A.? Ma chi sono costoro, rispetto all’uguaglianza dei cittadini innanzi alla Costituzione, per andare in deroga con la kermesse canora mentre un’intera nazione chiude, soffre e muore? Vero è che il Festival è in scaletta dal 2 al 6 marzo. Dubito però che in un quadrimestre la situazione possa sostanzialmente mutare. Ci attende almeno un biennio di pandemia: a Roma sapevano tutto, e hanno taciuto.



Mi domando: in un simile clima d’incertezza totale, se fossi un cantante, farei Sanremo? Ovvio che no, per tre ordini di ragioni.

Primo. La scorsa edizione – la più attesa, quella del 70° -, colta di sorpresa dal Covid-19, non ha sortito gli effetti economici sperati. La massa, spaventata e confusa, a tutto giustamente ha pensato fuorché a comprare musica o assistere a un concerto. Migliaia di spettacoli annullati da marzo a oggi. Il risultato? Cantanti e manager a spasso (si fa per dire, s’intende). E facchini, tecnici audio-luci, autisti, fattorini, attrezzisti di palco, maestranze e musicisti che non hanno visto un euro. Sono alla fame. I più di loro sono partite Iva semplici e forfetarie, che confidano nella bella stagione per tirar su due soldi con cui far fronte alla vita anche nei mesi freddi.

Secondo: partecipare a Sanremo costa. Eccome. Almeno 100mila euro mal contati ad artista e relativa casa discografica divisi tra registrazione del nuovo disco (sala d’incisione, strumentisti), promozione, grafica e confezionamento cd, stampa delle copie per la distribuzione fisica dei supporti e promozione mediatica. A ciò si aggiunga il Peppe Vessicchio della situazione: il direttore d’orchestra che trascrive le parti della canzone in gara adattandole per archi, fiati, ritmica e quant’altro. E poi le prove musicali sia a Roma che in riviera con tanto di staff al seguito, le trasferte, vitto, alloggio, noleggio vetture, autostrada e carburante.

Passi il 2020 in corso: nessuno nel 2019 poteva lontanamente immaginare una catastrofe simile. Nel 2021, dato il momento, non sarebbe invece meglio saltare il turno? Oggi gli artisti vivono più di live che di Siae. Di concerti che di dischi venduti. Se al Festival non seguono tournée estive e invernali, la musica è defunta. I cantanti anche.

Terzo: Sanremo 2021 non ha alcun senso anche per gli investitori pubblicitari che, per qualche esoso spot in più in prime time su Raiuno, tra un po’ devono persino ipotecarsi l’alloggio con il rischio evidente di reclamizzare prodotti che poi la gente non comprerà. Preferendo fare acquisti su Amazon comodamente seduta sul divano anziché scendere nel negozio sotto casa. Clichet anche questo attualmente ancora in onda. Altra fumata nera per gli investimenti che rischia tragicamente di proseguire, azzerando il commercio al dettaglio.

Infine, mi riesce davvero difficile accettare e comprendere perché si possa stare tranquilli, seduti e distanziati all’interno del teatro Ariston (una sala da 2.000 posti), rispetto invece ai 189mila metri quadrati di superficie della Fiera di Rimini: che grazie a Conte, compagni e virologi, si è vista sfumare anche Ecomondo.

La verità è che il Festival sta alla città di Sanremo come la Fiera Nazionale del Tartufo a Montiglio Monferrato. Concettualmente, non v’è differenza: sono entrambi la massima espressione aggregativo-economica di un territorio. Ciò per dire che chi più, chi meno – sindaci inclusi – in molti hanno dovuto rinunciare alle proprie kermesse di punta per il bene collettivo del Paese: penalizzando abitanti, commercianti e turisti. Tutti, eccetto la Città dei Fiori. E con lei Mamma Rai. Due pesi e due misure. Questa è l’Italia pirandelliana. Così è, se vi pare.