Sanremo non s’ha da fare. Ci vuole coraggio a chiamarlo Festival. Potrei andar avanti così per ore. La verità che si appalesa evidente e manifesta è una sola: ciò che va in onda al Teatro Ariston è una malriuscita reprise 3.0 di “Fantastico” senza i fasti gloriosi del passato. E senza soprattutto Pippo Baudo, che invece con Sanremo – quello vero! – fa rima, e da cui Amadeus è irrimediabilmente lontano ere geologiche. Con tanto di Loredana Bertè sfiatata oltre il plausibile e l’inverosimile, quasi fosse la triste controfigura di se stessa (a una certa meglio il playback, senza dubbio!).
Difficilissimo sopperire alla mancanza del pubblico: non c’è artificio autorale o di regia che tenga, o che possa fare il miracolo. Resta una mastodontica e scintillante scenografia, uno sfavillio di luci a led d’ogni sorta che cercano inutilmente, disperatamente di rianimare una scena morta. Un’atmosfera assente. Una vacuità imbarazzante e penosa insieme. Che il duo Amadeus-Fiorello cerca in ogni modo di riempire a colpi di sorrisi, battute, siparietti retrò in puro old style alla Via Veneto della celeberrima e willeryana “Vacanze Romane”, che consacrò nel Dopoguerra il mito di Gregory Peck e Audrey Hepburn. Con in sottofondo un’orchestra mascherata alla D’Artagnan e i moschettieri di un Re – il Festival – che, oltre che nudo, se c’è nessuno l’ha ancora visto aggirarsi tra i caratteristici caruggi e i viottoli che separano la riottosità del declivio appenninico ligure dalla spontaneità trasparente del mare di Riviera (quando ci potremo di nuovo andare).
Gomitate, ammiccamenti come saluti, carrelli che vanno e vengono con buste porta-pronostici e hit parade provvisorie. Saggia, e intelligente, la scelta di promuovere in anteprima d’apertura ufficiale di kermesse le prime quattro “Nuove Proposte” in gara: fra cui il cugino di SuperMario (Avincola) con tanto di pallone da calcio al posto della consueta chiave inglese e set da idraulico provetto. E la sorellastra di Heidi, al secolo Elena Faggi, maldestramente pronta ad arrampicarsi su improbabili virtuosismi più simili a mugolii che a belcanto o voce da sirena, nonostante i prodigi del tecnologico e progredito mixer audio.
A titolo di riempitivo in principio di puntata giunge anche uno scontato girotondo infantile in una platea-deserto mano nella mano con stacchetto improvvisato fra i due mattatori (e forse anche propriamente matti a essersi presi un simile mal di pancia in un anno altrettanto funesto anche se non bisesto).
Ci vuol tanto a capire che un’Italia col sedere a terra e il volto in lacrime di tutto ha bisogno, tranne che di canzonette, e oltretutto di bassa lega? Che Sanremo 2021 è un incivile pugno in faccia all’intero comparto dello showbusiness che in un anno ha visto franare in polvere il 97% del proprio fatturato? Che questa farsesca pantomima tutta mainstream e politically correct, con la costante reiterazione davanti alle telecamere di norme d’igiene e procedure cautelari di non-contatto, finisce solo per alimentare il terrorismo mediatico che già troppe vittime ha mietuto fra gli italiani e i loro cuori e cervelli altrettanto confusi, fragili e sconnessi?
Arriva poi il Diodato-remake che ripropone una improbabile “Fai Rumore” con tanto di stecca in una sera come tante: in cui persino scendere in strada a gettare la spazzatura in pieno coprifuoco potrebbe far configurare tout court un’ipotesi di reato se passa la volante. O tempora, o mores!
Il carrozzone sbilenco e stentoreo del Sanremo ai tempi del Covid, di una pandemia più presunta che reale, si rivela essere, più che una fuoriserie, un motocarro sgangherato a tre ruote che con arroganza pretende di essere scambiato per un Tir fiammante con tanto di rimorchio a tre assi. Con i cantanti presentati e osannati più per le visualizzazioni da social che le vendite da alta classifica. Amadeus, sveglia! La realtà è altra, e la canzone italiana è tutta a casa, ma non certo di casa qui con te.
Alla fine, la più grande verità profeticamente la preconizzò in tempi non sospetti il titolo del brano di Arisa, apparsa per nulla vocalmente convincente con orecchie a punta e in uniforme scarlatta da diavoletto bislacco: “Potevi fare di più”. Caro Sanremo, galeotto fu Gigi D’Alessio, partenopeo oracolo di Delfi prestato alla canzone che mai, come nel caso di specie, firmò ed espresse più grande sincerità (“Sincerità”, ricordi Rosalba? Quello sì che era un gran pezzo!).
Con la beffa degli applausi finti, di gag scontate come gli ospiti a rendere ancor più stantia e per nulla verisimile una scaletta che mai come quest’anno avrebbe dovuto scorrere maggiormente rapida e fluente, con non pochi segni di stanca e cedimento generale. Su tutto aleggia ancora l’eco dei rinati e davvero poco intonati new Righeira, all’anagrafe ribattezzati ora Colapesce e Dimartino a ricordare che, mai come quest’anno, sul palco della Città dei Fiori si parla solo – ahimè – di “Musica Leggerissima”.
Così invece Lele Boccardo, invece, critico musicale, scrittore e Direttore di Zetatielle.com: “Vorrei tanto poter commentare i Big di questa prima serata, ma sono le 22.35 e sinora se ne sono esibiti soltanto tre: ovvero, Arisa, Colapesce e Dimartino e Aiello. Sinceramente lo trovo vergognoso. C’è anche gente che domattina presto andrà a lavorare senza aver potuto sentire tutti i Campioni, ennesima dimostrazione di come ormai ‘Sanremo’ sia soltanto un marchio da esportare per fare vedere che noi siamo bravi, belli, la Città di Fiori: ma che con la competizione, con le canzoni non ha decisamente più niente a che fare. Mi permetto di dire #stendiamounvelopietoso per Arisa, che ha praticamente ricantato ‘La notte’ di qualche anno fa, mentre Colapesce e Dimartino parevano Franco Quarto e Franco Primo nella brutta versione 2.0. E Aiello mi chiedo davvero – magari non capirò niente di musica, vorrei dire un’altra parola, ma sono educato – che cosa c’entri costui sul palco della storia della musica italiana. Credo tutto questo sia la riprova provata, l’oggettiva e granitica dimostrazione di come Amadeus come Direttore Artistico non valga assolutamente nulla”. Condivido, firmo e sottoscrivo in pieno. Vostro, Maurizio Scandurra.