Sei decenni per il calendario, sei secoli per la società. Il tempo scorre in modo diverso a seconda di come lo si conta.

Tre anni dopo quel 18 maggio 1958 in cui, durante un concerto rock al palaghiaccio di Milano, s’impone come il nuovo, “inquietante” fenomeno della canzone italiana, Celentano canta al Festival di Sanremo voltando le spalle al pubblico. Andatevi a rivedere le immagini Rai: accade una volta sola, ad inizio canzone e dura soltanto un secondo. Uno solo, per di più inserito in uno di quei volteggi molleggiati che contribuiranno a renderlo famoso.



Apriti cielo: tanto bastò perché qualcuno gridasse subito allo scandalo e più tardi arrivasse il nome del cantante in Parlamento grazie ad un onorevole missino, l’avvocato Clemente Manco, che presentò una interrogazione con l’obiettivo di metterne al bando “i movimenti contorsionistici a fondo epilettoide”.



Sappiamo come andò a finire: “Con 24mila baci” (musica di Celentano, testo di Pietro Vivarelli e Lucio Fulci) sfiorò il successo (battuta solo da due mostri sacri della canzone melodica di allora, Luciano Tajoli e Betty Curtis) e vendette in pochi giorni 200mila copie. Il Molleggiato aveva spiccato il volo. Era il 27 gennaio 1961, secoli fa, appunto. Poi verranno Gino Paoli con lo “scandalo” della cravatta allentata, Lucio Dalla con quello della ragazza incinta in “Marzo 1943” e via elencando, in una progressione sempre più incalzante e radicale, ma tutto partì da Celentano.



Ci torna alla memoria in queste ore in cui anche la nuova edizione del Festival di Sanremo corre finalmente nel dimenticatoio, esattamente dove terminò la sua corsa quella famosa interrogazione parlamentare, l’unico posto dove (preso nel suo insieme, perché anche nelle situazioni peggiori si può trovare qualcosa di buono da salvare) la manifestazione sanremese può finire.

C’è un filo comune che lega l’edizione 1961 a quella del 2022? Forse sì. Lo “scandalo” isolato di allora e i tanti di oggi (altri ne hanno scritto a dovere, qui e altrove) sono lo specchio del decadimento sociale, culturale e (parolona impronunciabile!) morale della società italiana. Dove ormai tutto è uguale a tutto (tranne i valori della civiltà cristiana, sui quali si può anche sputare, su quelli di altre religioni non ci si azzarda nemmeno). Perché se in pieno boom economico ci si lamentava per un secondo di spalle girate o di una cravatta slacciata, e lo si faceva dall’unico canale della Rai, gli scandali di oggi non scandalizzano (quasi) più nessuno e men che mai possono indurre a farsi qualche domanda sul senso delle cose, mentre dai tanti canali Rai non arriva nemmeno il barlume di una notizia fuori dal coro. Potere di una cosa che continuano – chissà perché – a chiamare democrazia.

Sul palco dell’Ariston si parla, naturalmente, di libertà di espressione, una cosa che portata all’accesso ha invece tutta l’aria di una dittatura camuffata. “Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova di avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, allora che in mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa un mala pianta: la tirannia”. Lo scriveva Platone più di due millenni fa. E pensare che non aveva davanti nemmeno l’esempio del Festival.

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