Michele Monina è il Lester Bangs italiano. Per chi non conoscesse lo scomparso critico musicale americano, gli consigliamo vivamente di leggere i suoi articoli, vere e proprie opere d’arte. Come Bangs, Monina è uno dei pochi (l’unico?) critici musicali che dicono realmente quello che pensano, infischiandone del buonismo e del carrierismo che da sempre contraddistingue chi nel nostro paese scrive di musica: una buona recensione non si nega a nessuno, soprattutto quando porta con sé posti in prima fila per tutta la famiglia e inviti a pranzo e a cena. Oltre alla musica, lavora anche per radio, televisione, teatro, scrive romanzi e ha scritto le biografie di Valentino Rossi, Laura Pausini, Vasco Rossi, Lucio Dalla. Con questa intervista volevamo fare quattro risate sul Festival di Sanremo 2022, ma lui, ancora una volta, si è dimostrato acuto osservatore della realtà, dando giudizi che non troverete da nessuna altra parte.
L’anno scorso Amadeus al Festival di Sanremo si era sbracciato dichiarando la rivoluzione rock dei giovanissimi grazie alla vittoria dei Maneskin, quest’anno ci propina Gianni Morandi, Iva Zanicchi e Massimo Ranieri. Ci ha preso in giro a tutti? O ha preso in giro se stesso?
Credo che fondamentalmente Amadeus si sia trovato per le mani quei vincitori lì, e non abbia trovato di meglio che appiccicarci su la storiella del rock che torna in vita dopo anni di coma profondo, i negozi di strumenti assaltati da stuoli di giovani, le sale prove e le scuole di musica di colpo intasate, una specie di ritorno alla musica suonata che però non ha trovato rispondenza in nessun altro posto che nella narrazione vigente, sicuramente non nella realtà. Perché anche non volendo prendere il cast del Festival come archetipo del mondo reale, e in effetti non è saggio farlo, basterebbe guardare alle classifiche di vendita del 2021, parlo di Italia, dove non solo i Maneskin non svettano, ma di rock non ve ne è traccia, esclusi appunto loro, in terza posizione nella Top 10. Il rock è sempre lì dove si trova da anni, fuori dal mainstream, e credo che mai si sia sognato di scegliere i Maneskin come ambasciatori. Quanto a Sanremo, Amadeus ha constatato che l’anno scorso, checché se ne sia detto, che il Festival ha perso un milione e mezzo di spettatori, nonostante fossimo tutti murati vivi in casa, non credo che la perdita del main sponsor Tim sia infatti casuale, quindi ha provato a metterci una pezza dando al pubblico usuale di Rai1 pane per i loro denti, o le loro dentiere, cioè degli ottuagenari loro coetanei. Solo che nel farlo e continuando a fare l’occhiolino alle piattaforme di streaming con tutti quei ragazzini, tutti i campioni di incassi del 2021 sono in gara, alla faccia di quel che succedeva in passato, dove chi sbancava in classifica snobbava il Festival perché non ne aveva bisogno, nel chiamare cioè Blanco, Sangiovanni, Rkomi e compagnia bella, si è scordato delle generazioni di mezzo, i cinquantenni e sessantenni, grandi assenti nel cast.
A proposito di Maneskin: quanto dureranno?
Non so predire il futuro, e onestamente ogni volta che ho azzardato ipotesi su qualche artista, partendo da quello che credevo buon senso, non ci ho azzeccato. Quello che so è che i Maneskin funzionano più fuori che in Italia, e che fuori sono considerati naif, folkloristici, anche perché italiani. Poi da noi ci raccontano altro, una delle quaranta band che hanno aperto ai Rolling Stones, per dire, viene confusa come la band scelta personalmente da Mick e Keith per aprire il loro tour, e roba del genere. Quello che manca loro, per ora, è il repertorio, la loro hit è una cover, se troveranno le canzoni, magari affidandosi a qualcuno che le sappia scrivere, resteranno, o magari resterà il solo Damiano. Sono giovani e auguro loro una grande fortuna, io credo che continuerò a non ascoltarli, la vita è già abbastanza complicata di suo.
Sempre al Festival di Sanremo dell’anno scorso, durante un festival senza pubblico, Amadeus aveva detto che il festival avrebbe riaperto la strada dei concerti: un anno dopo siamo messi ancora peggio. Ci fa o ci è? Nel senso che esiste davvero qualcuno che pensa che Sanremo possa essere davvero un evento che apre delle strade?
Temo che ci faccia, giocando sul fatto che sembra uno che ci è. In realtà, proprio il fatto che per il secondo anno di fila il Festival vada in scena come se niente fosse, mentre tutto il resto del comparto musicale è al palo, attesta che Amadeus sia qualcuno che in realtà se ne frega bellamente del mondo della musica. Perché, diciamolo chiaramente, il Festival in sé non serve a nulla, è una vetrina, una promozione, ma in assenza di un mercato, la promozione arriva solo a chi guida la macchina.
Cioè?
Mi spiego. Che senso ha guardare al Festival di Sanremo come a un volano per i grandi eventi estivi, visto che con buona probabilità anche nel 2022 non ce ne saranno? Ci fossero sarebbero già in moto adesso, mentre l’adesso che tutti stiamo vivendo è fatto di restrizioni, inasprimenti, chiusure. L’anno scorso ne hanno beneficiato in pochi, Colapesce e Dimartino, La Rappresentante di Lista, Coma_Cose, ma in eventi non certo giganteschi, e quindi andando a posizionarsi bene in uno scenario che era però falsato, raccogliendo meno di quanto avrebbero raccolto in un anno normale. Il resto è stato il grande zero. Anche questa leggenda che l’anno scorso chi ha partecipato al Festival avrebbe sbancato al botteghino, leggi nel mercato discografico, è una leggenda metropolitana, perché in realtà il mercato in primavera era praticamente immobile, quindi sbancare era il minimo sindacale, e perché, numeri alla mano, nella già citata Top 10 di Sanremesi ce ne sono finiti solo due, i Maneskin, appunto, e quella Madame che era comunque già blockbuster annunciata. Diciamo che è un cane che si morde la coda, non c’è più mercato, per cui i dominatori delle classifiche devono andare a Sanremo in gara, e non come super ospiti, moda degli ultimi anni, parlo di prima della pandemia, e una volta andati lì continueranno a non avere mercato, semplicemente se ne parlerà perché tutto il resto è fermo. Sanremo è una specie di bolla speculativa, esiste perché si racconta e siccome si racconta esiste.
Il caso Morandi apre la serie di “casi” che ammorbano ogni Festival di Sanremo e alzano l’audience: ovvio che Morandi non sarebbe stato eliminato, lo ha voluto la Rai, lui a 77 anni non ha certo bisogno di andare a Sanremo, o no?
Giorni fa ho avuto una discussione benevola con mia figlia, venti anni, che sosteneva che Morandi avrebbe fatto tutto questo per far parlare di sé. A me la cosa sembra improbabile, le ho detto, perché di Morandi si parla da oltre cinquant’anni, e da questa cosa ha tratto beneficio più Sanremo che lui. Di fatto, avesse anche intonato la canzone che presenterà al Festival di Sanremo in diretta dalla finestra affacciata su piazza San Pietro, durante l’Angelus, non lo avrebbero eliminato, e anche in questo Amadeus si dimostra cinico e dittatoriale, cambia le regole e poi decide anche di non rispettarle, se non vuole. Sul perché Morandi invece sia andato a Sanremo non ho risposte sensate, perché onestamente alla sua età spero di avere altro da fare che star lì a far finta di essere giovane.
In un tuo articolo sul Festival di Sanremo hai citato La locura di Willie Peyote, brano presentato al festival l’anno scorso e molto polemico che fra le altre cose dice: “Questa è l’Italia del futuro Un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Tu hai aggiunto: “Le musichette mentre dentro, in sala, c’è la morte”. In che senso?
La canzone di Willie Peyote partiva dal monologo di Valerio Aprea in Boris, monologo nel quale uno dei tre autori della serie Occhi del cuore interpretato dall’attore romano ipotizzava quella che sarebbe stata la sola modalità per raccontare l’oggi in televisione, la locura, appunto. Cioè dipingere tutto di frivolezza, lui usava parole molto più chiare a riguardo, mentre tutto intorno è la distruzione. Lui, però, parlava di futuro, mentre a me sembra che anche il presente sia così. Si parla di Sanremo, sia che si parli di musica sia che si parli di intrattenimento, prendendolo sul serio, come se fosse la sola strada percorribile, anche oggi, nel 2022. Si prende cioè un programma televisivo spesso noioso che ha veicolato una marea di brutta musica, le famose canzonette, come qualcosa meritevole di attenzione, qualcosa in più del trovarsi tra amici per riderne, come del resto fino all’anno scorso si faceva con Eurovision. Il tutto mentre la rimanente parte del mondo della musica, la più parte, quella seria, volendo anche colta, è immobilizzata da due anni, agonizzante, se non addirittura morta. Si parla, cioè, di canzonette come se fossero altro, le si prende sul serio, mentre fuori c’è la devastazione, la fine prossima di un comparto economico che permette di mangiare a quasi un milione di persone. Non credo ci sia altro modo di affrontare la cosa se non con la locura, altrimenti toccherebbe prendere il bazuka.
Domandone seria: c’è mai stato un momento storico in cui il Festival di Sanremo ha avuto un senso e in cui ha prodotto belle canzoni?
Il festival di Sanremo ha sempre prodotto belle canzoni. Incidentalmente, casualmente, per distrazione. Ma le belle canzoni sono sempre state una minima parte, basta scorrere l’elenco dei brani che hanno partecipato per accorgersene. Certo, un tempo poteva capitare che fossero in gara Mina, Modugno, Celentano, la musica leggera era altra cosa rispetto a quella che è diventata poi dagli anni Settanta in poi, da che, cioè, è arrivata la cosiddetta musica d’autore. Quando mi sento dire che è sempre stato così, che da sempre, cioè, i padri si lamentano della musica che ascoltano i figli mi viene da ridere, perché mio nonno è nato nel 1897 e non aveva canzoni da contrapporre a quelle ascoltate da mio padre, classe 1936. Loro hanno incontrato il Festival di Sanremo insieme, ascoltandolo alla radio. Lì poteva anche avere un senso. Ora è un carrozzone che serve più che altro a far parlare un sacco di gente, mi metto nel gruppo, ma l’idea che lo si faccia seriamente mi immalinconisce davvero.
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