La polverina magica che ha trasformato Sanremo nel più grande evento culturale di tutti i tempi del nostro paese (e forse non solo del nostro) funziona a meraviglia la sera dei duetti e delle cover. L’incontro tra le grandi canzoni del passato e i pischelli della musica contemporanea spinge l’Italia di ogni età a rimanere incollata alla tv, in una condizione di estasi dove l’attrazione per il passato rivive in un presente tutto sommato accettabile.



Così in una sequenza si sono esibiti sullo stesso palco da Eros Ramazzotti a Lorella Cuccarini, da Edoardo Bennato a Carla Bruni (sua una straordinaria interpretazione di Azzurro con Colapesce e Di Martino). Vince ancora Marco Mengoni, questa volta in compagnia del Kingdom Choir cantando Let it be.

Molti di essi interpretano se stessi condividendo con giovanissimi cantanti – alcuni di essi all’epoca non erano ancora nati – i loro successi. È una particolare forma di unità nazionale mai raggiunta prima, unità di generazioni lontane e di storie diverse che mai si erano fuse in una unica idea di paese. Ecco perché tutto sommato sono davvero ridicole le critiche che regalano tutto questo a un Pd in agonia, accusando la sinistra da salotto di essersi appropriata del festival. È davvero stupido quel malcelato fastidio di una certa destra verso il successo di Amadeus e della sua squadra giovane e agguerrita.



La notizia bomba che incomincia a trapelare con insistenza nei corridori dell’Ariston riguarda il futuro del Festival e la possibilità che la proprietà – il Comune di Sanremo – possa cedere dal prossimo anno marchio e gestione a un investitore privato. Massimo riserbo su chi potrebbe essere l’investitore, ma di questi tempi – dal calcio al cinema sono numerosi i possibili investitori con tanti soldi – non possiamo meravigliarci di niente. I continui segnali di insofferenza verso la Rai e verso il nuovo Governo, in generale ostile verso tutto quello che sale sul palco del’Ariston, sembrano dare ragione a chi pensa che qualcosa sta succedendo.



Il primo segnale è arrivato proprio in occasione della visita del Presidente Mattarella senza che ne sapesse niente il CdA della Rai. Poi il caso Zelensky, dove la politica italiana ha fatto una pessima figura. Poi improvvisamente tutti hanno cominciato ad alzare i toni, nessuno si è sottratto alla polemica, da Fedez che ha stracciato la foto di un viceministro, fino allo stesso Amadeus che all’ennesima critica di Salvini ha risposto invitandolo “a guardare altro”.

Molti indizi non sono un prova, si potrà rispondere. Nel frattempo tutto i record precedentemente stabiliti sono stati sbriciolati. Gli italiani di ogni età, di ogni ceto sociale, delle grandi città come della provincia più sperduta, partecipano con entusiasmo allo spettacolo-evento dell’anno, senza temere le ore piccole, senza mai annoiarsi.

La ricetta del successo di questi ultimi quattro festival  rimane quella di un equilibrio perfetto tra passato e futuro. La condizione essenziale per funzionare sta nel rispetto di quello che di nuovo offre il panorama musicale – a cominciare dallo straordinario fenomeno rappresentato dai Maneskin – e nella intelligente azione di recupero del patrimonio più antico.

C’è un vino che rappresenta molto bene il Festival di Sanremo di Amadeus e ha un nome che è un programma: si chiama “Meraviglioso”. Lo ha realizzato un grande produttore della Franciacorta che si chiama Vittorio Moretti. È un vino celebrativo, realizzato come un medley mischiando le annate più preziose di questi ultimi 30 anni e conservato nelle sue cantine, affinato in 500 bottiglie magnum da collezione. Ma è il nome della bottiglia a stabilire una connessione con il festival, perché “meraviglioso” è proprio il titolo di una grande canzone di Modugno, che Moretti si ritrova a cantare quando è felice o quando riceve una notizia positiva.

Ecco la forza di Amadeus, aver capito che la musica in Italia è tutto, è come un enorme mazzo di chiavi, tra cui c’è sempre quella che apre la stanza della nostra felicità.

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