Finalmente il Festival di Sanremo è finito e francamente non ne sentiremo la mancanza.
Abbiamo assistito ad uno spettacolo invadente (vince facile la gara dello share perché in pratica non c’è gara, non c’è qualcosa di fortemente competitivo proposto in contemporanea, immaginate una squadra strutturata per la serie A che vince un campionato interregionale), fatto di siparietti di vario tipo e varia pretesa, dove l’inno nazionale sta sullo stesso piano degli “scandalosi” baci sulla bocca tra uomini, Mattarella sullo stesso piano di Fiorello, i diritti negati in Iran sullo stesso piano dell’egoico monologo della Ferragni che autoesalta il proprio modello di personaggio femminile; siamo passati con disinvoltura da un Benigni un po’ troppo trito e ritrito che omaggia logorroico la Costituzione alla squallida esibizione di un Blanco, dall’innocenza dei bambini che cantano alle più sguaiate e quasi ossessive celebrazioni del sesso sempre, ovunque, con chiunque; abbiamo messo insieme il messaggio di Zelensky e Fedez che simula l’accoppiamento omosessuale con Rosa Chemical. Tutto sullo stesso piano, tutto con lo stesso peso, come quando il Tg nazionale nei giorni scorsi passava tranquillamente dalle immagini drammatiche del terremoto in Turchia al collegamento con l’Ariston. Tutto leggero per la nostra voglia di niente. Perché la leggerezza superficiale è un grave sintomo che tutto è senza peso e senza gerarchie. Le cose pesanti e autentiche, quelle vere, non riesci nemmeno a dirle. Qui sono invece affogate in un gorgo che rende tutto stupido.
La gente vuole sentire musica e si appassiona alla gara, per questo aspetta il Festival, ma in cambio ci viene dato, da anni ormai, un carrozzone apparentemente senza capo né coda, in realtà molto attento a selezionare quello che mette a tema (per esempio, chi parlerà mai del dramma dell’aborto da quel pulpito?), perché è ideologicamente dominio di una sola cultura, quella del pensiero unico e dello star system.
Ma quello che manca al Festival è proprio la canzone. Abbiamo assistito a piattume e uniformità. Testi incomprensibili, con parole vomitate a raffica, salvo dei ritornelli molto orecchiabili adatti a diventare dei tormentoni (e lo diventeranno, ma questo non significa niente). Interpreti per lo più sconosciuti al grande pubblico che spesso stanno sul palco solo per il personaggio che interpretano, diciamo meglio: per la casella di un disegno al quale sono funzionali. Perché il problema sta tutto nella selezione dei “campioni” che ci vengono propinati, che non tiene conto delle qualità canore, di testi e musiche, di presenza su un palco (in alcuni casi veramente imbarazzante). Oggi tanti, tantissimi giovani capaci fanno musica ed hanno idee. Chi passa a Sanremo? Chi può essere “incasellato”. Ecco allora la ragazza che parla di un amore lesbico, il giovinetto imberbe e carinello che non ci sta ad essere etichettato come mostro, quell’altro che punta sui bambini, quell’altro che fa il trasgressivo, l’altra che ti parla della prostituta innamorata eccetera eccetera… Gente che sappia davvero cantare, boh. E quando sanno cantare (Mengoni e Giorgia, che tra l’altro non si capisce perché debbano ancora gareggiare come eterni debuttanti) propongono dei pezzi che oggettivamente nemmeno li valorizzano (non avrei mai creduto di dover rimpiangere L’essenziale!).
E i testi? Qui il discorso sarebbe troppo lungo, come quello sulla canzone nella sua essenza. I testi sono stati anch’essi piatti, monocordi. Un continuo rimasticamento interiore delle sofferenze di un io disperso e disperato. Leggete il testo della canzone vincitrice e provate a tirare qualche conclusione: troverete parole pretestuose, scelte per come suonano, più che per quello che devono dire, con una indigeribile prevalenza delle sdrucciole (Ultimo su tutti). E quando una storia c’è, anche bella nel suo essere drammatica (vedi Madame), tutto si dissolve in un balbettio assorbito dal ritmo ossessivo di una musica che non c’entra proprio niente col testo.
Per concludere dirò solo questo. Mi è bastato riascoltare Il cielo in una stanza cantata da Gino Paoli per respirare un’aria diversa: una canzone fatta di poche parole, costruita attorno a un senso comprensibile. Un’avventura del cuore che parla di una cosa bella che ti capita, che allarga il mondo col desiderio. E te lo dice riuscendo a mettere insieme il testo e una musica che quel testo te lo sa esprimere e ampliare.
Ma sto parlando di una canzone “vecchia”, una canzone che oggi “non è più da Sanremo”, che però urla che un altro Sanremo è possibile. E sarebbe davvero un grande Festival.
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