Il Festival di Sanremo 2024, che si è appena concluso col gradimento di milioni di italiani, è in fondo una moneta falsa. Una patacca. Un Truman Show dove però non c’è una persona vera che sia all’oscuro di tutto. È finto, anche se buona parte del pubblico lo prende sul serio. È una rappresentazione teatrale che si tiene in piedi perché gli spettatori accettano che sia vera e quelli che vi recitano lo fanno come se tutto fosse vero. Forse a un certo punto se ne convincono pure. Finta la selezione dei cantanti. Finto il sistema della votazione delle canzoni. Probabilmente finta la scaletta delle stesse. Finti gli scandali e i fuori programma. Vi siete mai chiesti come mai quando Fiorello dice una battuta, tutti intorno si scompisciano dalle risate, mentre voi siete lì impassibili davanti alla tv? Semplice: quelle risate sono finte. Il cantante col lapis incastrato ad un orecchio, il cantante che abbraccia Amadeus, il cantante che fa qualche stranezza, il cantante che regala un fiore al direttore d’orchestra o quello che scende in platea a portare un mazzo di fiori alla mamma. Tutto questo è finto, non è dettato da un sentimento vero ed estemporaneo, ma serve a fare punti sul Fantasanremo, dove tutto è quotato: il cantante abbraccia… 5 punti; il cantante ha un look… 2 punti; il cantante scende in platea… 10 punti… E i cantanti lo sanno, ma stanno al gioco della grande finzione, sono parte dell’ingranaggio.
È una vita che è così. Già da quando i cantanti si esibirono in playback. Fu l’anno in cui Vasco Rossi partecipò con Vita spericolata. Il secolo scorso. Poi ci fu il finto aspirante suicida “salvato” da Pippo Baudo. Poi tanto altro, fino alle squallide esibizioni oscene dell’anno scorso, apparentemente improvvisate, o ai fiori devastati sul palcoscenico con Amadeus che recita stupore. Tutto finto e con i social il livello della finzione è divenuto imbarazzante. Lo sappiamo, ma ogni anno facciamo finta di non saperlo.
Che c’entra questo con la musica? È presto detto: Sanremo è il luogo dei sentimenti finti, delle canzoni anch’esse finte (del resto composte, per la maggior parte, da una manciata di scrittori che le adeguano ai vari personaggi). A causa di questo meccanismo Sanremo è noioso e su trenta pezzi proposti a fatica riesci a salvarne un paio. Sanremo annoia, m’annoia. Ecco, ad esempio prendiamo la Mannoia. È una grande interprete, ha un’impeccabile presenza scenica, ma mi annoia. Fiorella Mannoia al festival canta Mariposa: il testo è un concentrato di banalità retoriche sul tema “donna”, la musica potrebbe essere quella di una ballata di De André. È una canzone sulle donne, scritta soprattutto da uomini (vedere alla voce autori). Il piglio è quello di cutugnana memoria: “sono un italiano vero”, cantava lui, “libera e orgogliosa canto”, ripete lei. I versi sono degni di un Giovambattista Marino, principe dei nostri poeti barocchi: “Sono la strega in cima al rogo/ una farfalla che imbraccia il fucile/ una regina senza trono/ una corona di arancio e di spine/ sono una fiamma tra le onde del mare…”. Cinque versi, cinque metafore e così via per tutto il resto del brano.
A proposito di Marino, c’è una bella parabola creata da Borges che racconta gli ultimi istanti di vita di questo poeta che aveva dedicato qualche decina di versi, pieni zeppi di metafore fantastiche, a una rosa. Marino è lì, sul letto di morte, e mentre vaga con gli occhi, lo sguardo gli cade su una rosa in un vaso del davanzale. Subito gli tornano in mente i suoi versi e se li ripete, ma in quel momento capisce che lui quella rosa non l’aveva mai capita. Ne aveva parlato, l’aveva detta in tutti i modi, paragonata in tutti i modi, cantata in tutti i modi, ma non l’aveva mai capita! Ecco, adesso adattate la parabola alla canzone della Mannoia con la sua cascata di metafore sulla donna. In quella canzone ci sono immagini sulla donna, ma non c’è la donna. È una sorta di pamphlet rivendicativo. Molto politically correct, ma molto retorico.
E’ un’affabulazione: parole, parole, parole… Ma Sanremo è Sanremo e da quando l’ha preso in mano Amadeus è diventato sempre più questa affabulazione retorica che non stringe la realtà. La mette in scena, non la stringe. Tant’è vero che la stessa Mannino l’ha bonariamente rimproverato al direttore artistico: perché spieghi le canzoni? Le canzoni si spiegano da sole! Già, se fossero davvero canzoni e non esercizi retorici.
Prendete la noia, questo nobile sentimento, secondo Leopardi, che nasce dal sentire che il proprio cuore è fatto per l’infinito e che tutto è troppo piccolo per la grandezza del suo desiderio. Baudelaire ne cantò con una violenza tragica che rasentava la follia. A Sanremo abbiamo avuto la versione cumbia di Angelina Mango, una versione ballabile che canta una noia finta, un’affabulazione anche questa, che ripete all’infinito la parola, ma non la vive, non la sente e non la fa sentire sul serio.
Nei versi di Marino c’era la rosa, ma non c’era la rosa. In quelli della Mannoia c’è la donna, ma non c’è la donna. In quelli della Mango c’è la noia, ma non c’è la noia. A Sanremo c’erano le canzoni, ma non c’erano le canzoni. C’era la vita, ma non c’era la vita. In questo senso il Festival è davvero il nostro specchio. Quello che siamo, quello che ci meritiamo.
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