Dopo tante edizioni in cui la musica risultava quasi di intralcio rispetto a intermezzi comici, ospiti declamanti, performance teatrali, pistolotti retorici, va detto che con un colpo di bacchetta magica il Festival di Sanremo 2025 è tornato ad essere la Festa della musica.
Nel solco più genuino di Corrado e Baudo, Carlo Conti ha dato il meglio di sé stesso, interpretando al meglio il ruolo del bravo presentatore. Ha avuto la buona idea – per creare un po’ di movimento – di invitare un altro bravo presentatore, il leader maximus della tv commerciale, Gerry Scotti. Anche lui garbato, mai fuori dalle righe, si è prestato a fare da spalla a Conti contribuendo a creare un clima di amichevole collaborazione.
A completare il trio ha voluto come rappresentante del gentil sesso Antonella Clerici, un’altra figura molto simpatica ma un tantino oltre il suo personaggio a causa di un vestito che la faceva sembrare un’abat-jour in stile chippendale. Spero che Antonella non se la prenda (ci siamo conosciuti quando ero consigliere della Rai) ma se non si ha il fisico e l’età della Guaccero, sarebbe meglio evitare di inguainare nel lamé le curve da ottima cuoca.
Ma nessuno è perfetto. Mentre è stato perfetto il rispetto dei tempi della scaletta con relativo minutaggio pubblicata dal Corriere della Sera. Tanto per dire, il sedicesimo cantante – Massimo Ranieri – che doveva esibirsi alle 11:22 ha cominciato addirittura cinque minuti prima. Tutto merito della inappuntabile conduzione di chi ha gestito per decenni ogni tipo di spettacolo in qualsiasi tipo di contesto.
Eccellente come ogni anno l’orchestra e in particolare il lavoro dei fonici Rai, dei veri maestri delle riprese dal vivo. Molto belli gli arrangiamenti, perfetti i vocalist. Un po’ meno invadente del solito la scenografia, che fa pensare alla tecnologia di cui tanto oggi si parla. Grande uso di luci, mentre la regia è parsa piuttosto debitrice allo stile di X-Factor, visto l’impiego di ballerini a supporto di alcune esibizioni. Già. Ma perché solo di alcune?
E veniamo alla musica.
Credo si possa dire che nel ruolo di direttore artistico Carlo Conti si sia basato sull’usato sicuro, visto che quasi tutti i cantanti sono già stati diverse volte sul palco dell’Ariston.
Ad altri spetta il compito di analizzare le canzoni. Ma non riesco a trattenermi dall’osservare che salvo qualche rara eccezione mi è parso di ascoltare dei compitini fatti ricalcando il mood in voga nel proprio genere. Inizi sussurrati, progressione di accordi di maniera, incisi prevedibili con tanto di immancabile tappeto di violini in crescendo. Rap inevitabilmente assai simili con grande uso dell’auto-tune. Ma di veramente memorabile si è ascoltato ben poco.
Da dimenticare poi diversi outfit che più che originali sono apparsi stravisti e provinciali. Ragazzi, il “famolo strano” oramai non paga più, in America il woke fluido è già morto, mentre da noi che si aspetta?
Se mi posso permettere una mia personale selezione, ho trovato sopra la media le voci e le canzoni di Gabbani, Giorgia, Willie Peyote. E perché no, di Joan Thiele. Davvero eccellente – e commovente – la superlativa performance di Noa e Mira Awad (israeliana e palestinese) che cantando insieme hanno lanciato un messaggio di speranza e di pace molto più convincente di qualsiasi discorso.
Ma c’è un ma.
Hanno cantato Imagine di John Lennon (la cui melodia ha fatto ben comprendere cos’è una canzone memorabile) in cui c’è un verso in cui si sogna un mondo senza paradiso né religione. E cos’hanno pensato di fare per introdurre questa performance? Invitare il Papa a dire la sua sul potere pacificante della musica. Peccato che ai più avveduti sia apparso un me too (che significa anche io), in quanto Papa Francesco era appena stato ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Non ce n’era proprio bisogno, mentre si è finito per far rilevare di essere arrivati secondi. Che ci azzecca poi il massimo Pontefice della cristianità con una canzone il cui testo è un distillato di relativismo etico?
Dopo aver detto tutto il bene possibile di un Festival che è tornato a mettere le canzoni al centro dello spettacolo, non rimane che rimanere un po’ delusi dalla musica che ci passa il convento. È il risultato di un’industria discografica e televisiva che ha spinto sempre di più a creare e produrre quello che va, invece di quello che potrebbe sorprendere.
Da quest’anno riprende il DopoFestival, con i commenti di Cattelan e persino della madame-à-penser Selvaggia Lucarelli. Ecco perché in Italia il woke è duro a morire.
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