Ieri il Fondo monetario internazionale ha rivisto le proprie stime di crescita per il 2022. Nella sezione dedicata all’Europa, il Fmi specifica che “le maggiori revisioni al ribasso sono nelle economie come quelle di Germania e Italia con grandi settori manifatturieri e una maggiore dipendenza dalle importazione energetiche dalla Russia”. Non è un caso che le due caratteristiche, la dipendenza dalla Russia e la dimensione del settore manifatturiero, siano concomitanti. Prima dello scoppio del conflitto il settore manifatturiero europeo, che paga tasse e salari da “economia sviluppata”, poteva prosperare nei mercati internazionali grazie al decisivo contributo di risorse energetiche stabili, prevedibili ed economiche; non c’è nulla al momento, tranne il nucleare, che possa garantire tutto questo meglio della Russia.
Il gas americano costa molto di più, quello del Nord Africa sconta, è il caso libico per esempio ma non solo, incertezza geopolitica. L’altro ieri, è un secondo esempio, Putin ha avuto una telefonata con l’omologo algerino, il Paese a cui ci siamo rivolti per provare a sostituire il gas russo; i due leader hanno confermato i piani di un maggior coordinamento all’interno dell’OPEC+ e si sono accordati per continuare la cooperazione al forum dei Paesi esportatori di gas.
Il taglio delle stime rispetto a quelle precedenti è dell’1,5% per l’Italia e dell’1,7% per la Germania, rispettivamente la seconda e la prima manifattura d’Europa, contro una media dell’area euro dell’1,1%. La revisione per gli Stati Uniti, 0,3%, è la più contenuta tra quelle delle economie avanzate dopo il Canada, 0,2%. Sono numeri che non sono estranei alla posizione politica che i due Paesi, più la Germania che l’Italia in realtà, hanno avuto in Europa rispetto alla questione delle sanzioni contro la Russia. L’Italia e la Germania sono le due economie più colpite; la loro “colpa” è quella di avere imprese che hanno bisogno come l’aria di risorse energetiche economiche. Ricordiamo che nessun Paese al mondo ha speso quanto la Germania in transizione energetica; si stima oltre 500 miliardi di euro. Evidentemente un ampio sistema industriale in un’economia avanzata, con i suoi salari, le sue tasse e i suoi vincoli ambientali, ha bisogno di idrocarburi a basso prezzo per sopravvivere a meno che, come il caso francese, non si decida per un massiccio settore nucleare.
L’ultima revisione del Fmi non include lo stop alle importazioni di petrolio russo, che secondo Jp Morgan potrebbe portare il prezzo del Brent a 185 dollari al barile, né tantomeno uno stop alle importazioni di gas. Sono due eventualità che metterebbero in ginocchio l’industria europea e le economie più colpite sono sempre Germania e Italia. Quello che si è visto a febbraio 2020 in Europa quando è scoppiato il Covid e più recentemente le nuove politiche di immigrazione del Regno Unito danno la misura di quali sentimenti suscitino le crisi in “Occidente”.
Janet Yellen, già Presidente della Federal Reserve e ora segretario del Tesoro americano, settimana scorsa ha dichiarato di essere particolarmente preoccupata per una recessione in Europa. Ieri l’euro ha chiuso ai minimi degli ultimi cinque anni contro il dollaro. Non si può dire che il mercato e gli investitori non abbiano capito cosa sta succedendo e cosa possa succedere se le sanzioni si moltiplicano.
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