Il ritorno, realizzato all’inizio degli anni Duemila, della Russia sulla scena economica globale si è realizzato grazie ai processi di integrazione economica tipici della globalizzazione molto più di quanto è successo per la Cina. La Russia è stata capace di architettare una forma decisamente peculiare per realizzare la sua partecipazione alle dinamiche dell’economia globale.



In modo decisamente semplicistico si è paragonata la Russia a un’Arabia Saudita ai confini dell’Unione Europea che doveva la sua ricchezza all’esportazione di materie prime. In realtà la Russia, a differenza della Cina, è stata capace di realizzare una forma di integrazione indiretta che rispondeva alle proprie esigenze geo-economiche e geopolitiche. Mentre riversava petrolio e gas naturale sui mercati mondiali e le sue banche e grandi aziende ottenevano quantità considerevoli di prestiti in Europa, la Russia accumulava un’enorme riserva in dollari senza avere una connessione diretta con l’economia americana. Un’integrazione in cui coesistevano autarchia e apertura selettiva ai mercati finanziari europei e che aveva le sue radici nella problematica transizione al capitalismo degli ex Paesi sovietici.



Durante la “recessione di transizione” che si ebbe in Russia tra il 1989 e il 1995 si registrò il crollo del Pil del 40%, la riduzione di più di un quarto del valore del rublo rispetto il dollaro e un’inflazione senza freni. In questa fase, l’Unione Europea non ha avuto la forza né la lungimiranza per essere un soggetto all’altezza del suo protagonismo economico. Con salari arrivati a un quarto di quelli tedeschi e una forza lavoro qualificata, i mercati dell’Est hanno esercitato un fascino irresistibile per le imprese europee, che arrivarono a detenere la metà della capacità manifatturiera dei paesi ex sovietici. Una realtà esemplificata dall’acquisizione della Skoda da parte di Volkswagen e dalla presenza della Fiat che divenne l’investitore estero più presente in Polonia.



All’acquisizione della base industriale degli anni Novanta seguì l’espansione finanziaria, che prima della crisi del 2007-2008 aveva portato ai paesi post-sovietici 1,3 trilioni di dollari di crediti. Per descrivere questa fase Adam Tooze ha parlato di “esperimento definitivo di dollarizzazione”, descrivendo la realtà di un paese che aveva la più grande economia in dollari dopo gli Stati Uniti. Parliamo di un afflusso incessante di capitali, che si interruppe con la crisi arrivata in Europa nel 2008, con conseguenze che paghiamo ancora adesso.

La Russia si risollevò da questa situazione grazie al corso inaugurato da Primakov e che si basava sul boom delle materie prime che si è registrato nel 2000 e che la portò in una situazione contraddittoria, in cui il surplus commerciale e le enormi riserve valutarie coesistevano con una crescente integrazione con le economie occidentali. Una situazione che rappresentava per il governo russo un dilemma di difficile soluzione, poiché l’indipendenza economica si poteva raggiungere solo attraverso l’interconnessione e l’interdipendenza. Una contraddizione che prima o poi doveva presentare il conto alle aspirazioni e al revanscismo russo.

Il mancato compimento dell’integrazione dell’economia russa con quella dei paesi europei all’interno di un comune quadro istituzionale ha accentuato le tendenze autarchiche, che poi sono state amplificate dalla presa d’atto che il mondo unipolare a guida americana non aveva ancora lasciato il campo a un nuovo equilibrio multipolare.

L’azzardo, dagli esiti imprevedibili, dell’invasione dell’Ucraina ha parte delle sue cause in questo processo contraddittorio in cui l’espansione delle economie occidentali nell’Est non è stato bilanciato da un reale processo di integrazione. Inoltre, la logica finanziaria di questa espansione si caratterizzava per la compresenza di due fattori alla lunga divergenti, ovvero l’ingresso dei paesi ex sovietici nella Nato e l’incapacità dell’Ue di divenire un soggetto geopolitico.

Quando nel 2005 si firmarono gli accordi per il gasdotto Nord Stream fra Russia e Germania, queste contraddizioni erano già evidenti, come dimostrò l’atteggiamento che tenne il governo polacco, che immediatamente evocò il patto Molotov-Ribbentrop, esplicitando il desiderio che la Nato divenisse un soggetto attivo anche nel campo della sicurezza energetica.

Nel 2006, quando divenne chiaro che la questione dell’integrazione economica era legata a quella della sicurezza energetica, l’allora ministro delle Finanze russo, Aleksej Kudrin, dichiarò immediatamente che era a rischio la condizione del dollaro come “valuta di riserva universale”. In definitiva, nelle origini della crisi in atto erano già evidenti tutte le questioni sul tavolo, ovvero le conseguenze geopolitiche dell’integrazione economica e finanziaria dell’Est Europa.

A fronte di queste considerazioni il dibattito attuale sulle sanzioni economiche alla Russia risulta surreale e mosso dall’illusione che una fase di aperta ostilità possa essere compresa e gestita con una semplice analisi costi-benefici, confondendo la causa con ciò che in realtà è effetto di un processo iniziato a fine anni Novanta.

Parliamo evidentemente della fine del processo di integrazione e interdipendenza che ha caratterizzato la globalizzazione.

Il significato di disconnessione della Russia dal sistema di pagamenti Swift – di cui abbiamo già parlato in una fase in cui le guerre valutarie non avevano ancora lasciato spazio alla guerra vera e propria – va ben oltre la lecita punizione delle aspirazioni tardo-imperiali russe; segna la fine di questa fase della globalizzazione e rischia di compiere definitivamente il processo di de-dollarizzazione dell’economia internazionale, che rappresenta l’obiettivo tattico a cui puntano i russi per raggiungere la piena autonomia finanziaria. Il rischio che Putin ha deciso di prendere si basa sulla decisione di accentuare la tendenza autarchica dell’economa russa e sulla consapevolezza che il mondo che prenderà forma dal blocco finanziario ed economico imposto sarà molto diverso da quello attuale. Un mondo in cui non si è ancora realizzata la compiuta transizione da un mondo unipolare – basato sull’egoismo degli attori economici e geopolitici – a uno multipolare, che verte su una reale integrazione delle economie nazionali.

Il ritorno della politica di potenza segna inequivocabilmente la fine di tutte le illusioni legate all’efficienza e alle virtù di un’illimitata espansione economica e finanziaria e avvia l’incerta e drammatica transizione verso il nuovo ordine mondiale che caratterizzerà gli anni a venire.

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