Ben 126 miliardi di dollari. Questa è la cifra “monstre” persa dall’oligarchia russa che sostiene Putin in questi primi (e si spera ultimi) giorni di guerra. Cene a Portovenere, yacht da favola con cui navigare tra Montecarlo e Sardegna, vacanze sulla neve a 5 stelle e tenute in Toscana: l’aureo mondo dell’oligarchia russa è in crisi, svernare in Europa dagli anni 2000 è una prerogativa degli oligarchi, amanti della “bella vita”, ben oltre Fellini.
Fonti d’intelligence (riprese da Forbes) indicano che questo “circolo” inizia ad avere delle turbolenze: i patrimoni sono a rischio e le sanzioni occidentali durissime (per gli oligarchi). Putin sfida l’Occidente con la deterrenza nucleare, la Ue risponde bloccando ogni velivolo russo, jet privati compresi. Altri dollari in fumo e fronte interno con qualche crepa?
Pare, però, che in Russia di oligarchi non ve ne siano più. Infatti all’inizio degli anni Duemila i veri oligarchi furono espulsi dall’arena delle decisioni politiche. Aleksandr Shokhin, capo dell’Unione russa degli industriali e degli imprenditori, è molto chiaro al riguardo: “Negli anni Duemila il termine significava ‘un imprenditore che influenza le decisioni politiche’. Durante la presidenza Eltsin (1991-1999) gli oligarchi aumentarono la loro sfera d’influenza all’interno della politica russa; hanno svolto un ruolo significativo nel finanziamento della rielezione di Eltsin nel 1996”. Questo “circolo” ha controllato dal 50% al 70% di tutte le finanze russe tra il 1996 e il 2000.
Fridman, Potanin, Aven e Malkin mantennero la loro influenza nell’era di Putin, iniziata nel 1999. Khodorkovsky, Berezovsky e Gusinsky “sono stati epurati dal Cremlino” nel 2008, secondo The Guardian. Gli oligarchi più famosi dell’era Putin includono Roman Abramovich, Alexander Abramov, Oleg Deripaska, Mikhail Prokhorov, Alisher Usmanov, German Khan, Viktor Vekselberg, Leonid Mikhelson, Vagit Alekperov, Mikhail Fridman, Vladimir Potanin, Pyotr Aven e Vitaly Malkin.
Questo cerchio di potere, che Putin ha combattuto, finendoci poi a patti, ora appare più che mai perplesso sulle scelte governative. Il sistema oligarchico ha bisogno della valvola di sfogo internazionale o implode: ricordiamo che dal 1991 al 1999 in Russia fu attuata una forte campagna di privatizzazione, che portò funzionari e non ad acquistare imprese di Stato per pochi rubli (se non gratis). Tali aziende furono “internazionalizzate” e s’inserirono nel tessuto economico europeo, Londra in primis.
Il pacchetto di sanzioni, di fatto, colpisce chirurgicamente la fascia alta della società russa, perfino quella che risiede all’estero.
Putin lo ha capito e infatti vuole dare una svolta alle operazioni in Ucraina, che non si sono concluse con il blitz sperato da Mosca. Più tempo la finestra di guerra resta aperta, più l’oligarchia russa perde denari. L’uscita della Russia dallo Swift sarebbe un macigno e Mosca non avrebbe più nessun guadagno dall’export di gas, grano e petrolio. In questo caso le aziende russe andrebbero in crisi, perché avere le materie prime è una forza di deterrenza, a patto che si possano vendere.
L’Occidente può organizzarsi, stringere i denti, ma trovare vie alternative, evitando il gas russo (che, ricordiamolo, è fondamentale, ma non è il cappio che si racconta). Quest’approccio, ovviamente, spaventa l’oligarchia russa, che pare premere su Putin e non solo. Qualcuno in Russia sta cercando ponti in Europa, si vogliono evitare uno strappo totale e uno scambio a due con la Cina, partner da sempre indigesto a Mosca.
Turbolenze interne al monolite russo? Sono da verificare, ma non da escludere. Sarebbe paradossale se Putin dovesse fermarsi a causa di imprenditori attratti da un sistema (quello liberista) combattuto e trattato come un “male assoluto”.
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