I ministri degli Esteri dell’Unione europea lunedì non sono riusciti a raggiungere un accordo su ulteriori sanzioni nei confronti della Russia. Diversi Paesi dell’Unione, tra cui Germania e Olanda, si sono opposti a sanzioni sulle importazioni di petrolio perché la dipendenza nei confronti della Russia è troppo elevata. Il ministro degli Esteri tedesco a questo proposito ha dichiarato: “La questione di un embargo sul petrolio non è una questione sul fatto che lo vogliamo o meno, ma su quanto dipendiamo dal petrolio”. “La Germania importa molto petrolio dalla Russia, ma ci sono altri Paesi membri che non possono fermare le importazioni da un giorno con l’altro”. Imporre queste sanzioni per molti Paesi vorrebbe dire causare uno shock economico molto pesante e dalle conseguenze sociali e politiche imponderabili. Se non fosse così non si spiegherebbe la riluttanza di Paesi europei che in questi stessi giorni inviano gratuitamente armi all’Ucraina, usate contro la Russia, e che dichiarano di volersi riarmare.
Evidentemente l’impatto economico sarebbe particolarmente negativo e altrettanto evidentemente, al di là dei proclami, sostituire la Russia è molto difficile soprattutto in tempi rapidi. Nemmeno ipotizzando tappe forzate e la legge marziale si potrebbe ottenere questo obiettivo in meno di cinque anni se non imponendo blackout a imprese e cittadini; anche in questo caso le conseguenze economiche e occupazionali sarebbero notevoli.
La mancanza di un accordo europeo è l’occasione per ricordare che l’aumento del costo dell’energia elettrica per le famiglie e per le imprese francesi è stato limitato da Macron al 4%. La principale utility del Paese, Edf di cui il Governo francese possiede direttamente e indirettamente l’80%, ha perso in borsa tra dicembre e gennaio quasi il 40% o 15 miliardi di euro di capitalizzazione e dovrà fare un aumento di capitale che verrà in buona parte sottoscritto dallo Stato francese. Macron alla fine di settimana scorsa ha parlato di nazionalizzazione di alcuni asset. Si presume che gli investitori non siano stati particolarmente felici. Il costo dell’operazione per la Francia è comunque gestibile perché il Paese transalpino è uno dei membri dell’Ocse con la minore dipendenza dagli idrocarburi in assoluto vista la massiccia presenza dell’industria nucleare.
Sottolineiamo, a questo proposito, che Boris Johnson negli ultimi giorni ha incontrato i manager delle principali società energetiche per aumentare gli investimenti in estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord; il primo ministro avrebbe inoltre dichiarato l’intenzione di voler costruire nuove centrali nucleari alla “velocità della luce”.
Torniamo nell’Unione europea. Nella stessa Unione, con la stessa valuta e, si suppone, la volontà dichiarata di un’unica politica estera e di un unico approccio nei confronti della Russia, ci sono Paesi le cui imprese hanno subito incrementi del costo delle bollette di diverse volte e altri che invece hanno subito un modestissimo rincaro del 4%. Qualunque impresa minimamente energivora italiana abbia un concorrente in Francia oggi chiude e regala i propri clienti al Paese transalpino. Questa non è una lamentela, ma una constatazione. Le imprese tedesche sono in una situazione migliore di quelle italiane perché il debito pubblico della Germania è basso, ma a lungo andare l’esito è lo stesso. In Europa, giusto o sbagliato che sia, non ci sono meccanismi di compensazione se non la Bce, con tutti i suoi limiti, e il mitologico Recovery fund.
Non è chiaro se l’imposizione di una politica unica a tutti i membri, nell’attuale impalcatura europea, sia una strada che porta a una maggiore coesione e, magari, stabilità interna o all’opposto. Più le sanzioni aumentano di intensità, più è lecito farsi delle domande. Se l’appartenenza al progetto europeo e l’impossibilità di modulare le sanzioni a seconda delle specificità dei singoli Paesi avviene al costo di una devastazione economica tra imprese e cittadini, allora è lecito attendersi sfide impegnative.
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