Con grande slancio e spirito europeista la nostra classe dirigente si è messa l’elmetto ed è andata alla guerra, bollando come propaganda putiniana ogni discorso che palesava dubbi sulle modalità dell’espansione ad Est della Nato e dell’Unione europea.

Un atteggiamento che produce uno strano effetto straniante in chi ricorda che furono esponenti di questo governo a permettere a soldati russi di scorrazzare liberamente per le valli della bergamasca durante la pandemia. Il “niente non sarà più come prima” che campeggiava deciso fra gli slogan della prima parte della pandemia ora viene ripetuto con altrettanta veemenza da una classe politica che non sembra interessata a rassicurare un paese sfibrato da questi anni di emergenza continua.



E’ una strana dimostrazione di coraggio quella che offre gran parte della classe politica: si mostrano i muscoli accodandosi volonterosamente alle dichiarazioni dei portavoce di Bruxelles e si chiedono sacrifici, ma non ci si interroga su quali sono i reali interessi nazionali in gioco in questa fase.

Occorrerebbe dare uno sguardo alla cartina geografica e fare uno sforzo d’immaginazione. Sembrano passati anni da quando gli analisti più accorti si interrogavano circa l’opportunità di spingere la Russia fra le braccia della Cina e ci si preoccupava per la presenza in Libia di soldati russi, mentre sul lato dell’economia reale crescevano gli allarmi circa la tenuta del tessuto delle imprese italiane alle prese con l’inflazione e i costi dell’energia.



L’avventurismo di Putin ha messo in secondo piano queste questioni e l’emergenza permanente continua a rappresentare uno strumento di legittimazione politica e l’occasione per continuare il Quantitative easing, che da strumento straordinario è divenuto una consuetudine per tempi eccezionali, di cui non si intravede la fine.

Al netto della facile ironia nei confronti di una classe politica che ha imparato a galleggiare cavalcando le onde dell’emergenza perenne, anche a costo di prodursi in irrituali figuracce diplomatiche, sarebbe saggio farsi un’idea più precisa circa l’interesse nazionale. Sembrerà strano a chi si distingue nell’accodarsi alla visione strategica di Berlino e Parigi, ma il futuro del nostro Paese si gioca nel Mediterraneo e non in Ucraina.



La stessa idea d’Europa che si sta costruendo in questa fase, oltre che a dimenticarsi dei problemi che hanno comportato l’allargamento a Polonia e Ungheria, si basa sul tentativo di rilanciare strategicamente l’iniziativa tedesca, che dopo il fallimento del progetto North Stream abbandona il proprio pacifismo e stanzia 100 miliardi per il proprio esercito federale, prendendo decisivamente atto del fatto che per realizzare  le proprie aspirazioni l’euro non basta e che nel gioco dei rapporti di forza internazionali bisogna far pesare anche la propria forza militare.

Il realismo, a cui conviene aggrapparsi in giorni così complessi, ci dice che i soldati russi per noi sono più pericolosi in Libia che in Ucraina e che accodarsi all’Unione europea non è detto che sarà una cosa buona per la nostra politica energetica. Chiudere definitivamente la porta in faccia alla Russia può comportare un grave problema per le nostre imprese e lo sarà anche in chiave futura, quando auspicabilmente non avremo più a che fare con Putin.

Purtroppo gli errori si pagano e l’aver abbandonato il progetto del gasdotto South Stream e l’aver rinunciato alla nostra sovranità in materia energetica rappresentano un conto salato da pagare. Quando tante imprese dovranno chiudere e quando tante famiglie saranno ridotte sul lastrico a causa dei prezzi del gas saranno in tanti a chiedersi se è questo il prezzo che ci avranno portato a pagare per la libertà degli ucraini di cui si parla in questi giorni.

L’ironia della storia fa sì che spesso chi si fa latore di libertà e democrazia è anche chi ha firmato il famigerato Memorandum sulla Via della Seta e ha chiuso gli occhi su uiguri e Hong Kong.

A ben vedere ci vorrebbe coraggio e impegnarsi realmente nei dossier che contano. Rilanciare il South Stream al momento è poco realistico, ma iniziare a ragionare in modo autonomo e responsabile con la Russia di oggi e soprattutto con quella di domani può fornire un utile strumento per la pace e forse una soluzione per la pericolosa presenza dei russi in Libia. Chiudere tutte le porte al momento non conviene a nessuno, tantomeno all’unico alleato strategico che conta per noi: gli Stati Uniti.

Impegnarsi attivamente nel Mediterraneo è l’unica strada che dovremmo praticare e a giovarsene sarebbero tutti i nostri alleati. Ma questo richiede coraggio, che è una cosa diversa dall’esercizio della retorica.

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