Il responsabile della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ieri ha dichiarato che il blocco delle importazioni di gas dalla Russia “non è per domani ma per dopodomani”. Per Borrell il blocco delle importazioni è inevitabile non solo nel lungo periodo, ma nel breve-medio; pare escluso invece un blocco imminente.
Il blocco del gas rimane per una buona parte della narrazione sul conflitto un’arma economica con cui colpire la Russia e privarla di risorse economiche per la guerra. In quest’ottica sarebbe difficile obiettare, ma la questione è più ampia. Da mesi si parla apertamente di maggiori investimenti dell’Europa in difesa e di un riarmo che la metta in grado di sostenere militarmente un possibile peggioramento del conflitto. Per raggiungere questo scopo occorrono diversi punti di Pil da spendere all’anno per molti anni; sono cifre colossali pari a quelle di una finanziaria “dedicata” alla difesa ogni anno. Sostituire il gas russo è molto difficile ed è invece sicuramente impossibile trovare forniture così economiche. Le forniture russe non sono un lusso che l’Europa si concede; la disponibilità di energia a basso costo è ciò che ha permesso all’industria tedesca e italiana, il cuore pulsante della manifattura europea, di prosperare negli ultimi vent’anni e di sopperire, con le esportazioni, a una crisi, quella dei debiti sovrani, che è stata solo europea e che ha indebolito la domanda interna. Il gas russo è una componente fondamentale di un florido sistema industriale europeo senza il quale i sogni di aumenti della spesa in difesa rimangono utopie se non al prezzo di sacrifici insostenibili imposti alla popolazione. Anche in questo caso il consenso interno, le retrovie della guerra, è imprescindibile per una fase di conflittualità prolungata.
È vero quindi che gli acquisti di gas europeo alimentano il surplus commerciale russo, ma è altrettanto vero che questi flussi sono un elemento decisivo, una condizione necessaria, della sopravvivenza del sistema industriale europeo che deve continuamente rintuzzare la competizione di Paesi con costi del lavoro molto più bassi. La Russia potrebbe chiudere i rubinetti e perdere decine di miliardi di euro di incassi all’anno, ma devastare l’economia dell’Europa o, almeno, di una sua parte importante: Germania e Italia in primis.
Non si comprende, quindi, come si possa conciliare l’obiettivo di un’Europa più forte, anche militarmente, con decisioni che minano la competitività del sistema industriale europeo. Dal punto di vista economico-finanziario non c’è modo di risolvere questa “equazione” se non ammettendo che l’Europa, o almeno la parte che sarebbe più colpita dalle sanzioni, debba essere vista come un pezzo, sacrificabile, di una più ampia coalizione democratica che invece continuerebbe ad avere i mezzi per alimentare lo “sforzo bellico”.
Il blocco delle importazioni di gas danneggia economicamente la Russia, ma allo stesso tempo taglia le gambe su cui dovrebbe camminare l’aumento della spesa per la difesa europea. L’altro obiettivo, ci sembra, è quindi quello della chiusura dei rapporti commerciali tra i due blocchi che isoli, una volta pagato un enorme prezzo iniziale, da ulteriori peggioramenti politici ed economici. Fermare qualsiasi forma di interdipendenza elimina dal dibattito sulla necessità di un accordo l’argomento “economico” che, a sua volta, si porta dietro quello sulla qualità della vita dei “cobelligeranti”. Saremmo quindi tutti finalmente più liberi di ingranare le marce del conflitto.
L’interdipendenza economica e il rapporto, anche solo economico, con la Russia oggi è un elemento che frena il conflitto oltre ogni evidenza. Ognuno può liberamente pensare se questo sia positivo o negativo. Non ci sembra invece che ci possano essere diverse interpretazioni sulle conseguenze della rimozione di questo freno.
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