L’annunciata decisione del Governo di non prorogare il blocco dei licenziamenti oltre la scadenza del 31 dicembre 2020 ha già scatenato la reazione negativa delle organizzazioni sindacali, e alcune riserve all’interno della stessa compagine governativa. In effetti la partita si annuncia ostica. La scelta operata nel periodo del lockdown, e successivamente confermata nel mese di agosto per le imprese che utilizzano le casse integrazioni ordinaria o in deroga, o che hanno optato per la riduzione degli sgravi contributivi sui costi del lavoro sino alla fine del 2020, ha comportato di fatto una sorta di accumulo dei licenziamenti potenziali legati alla contrazione delle attività o alle conseguenze delle innovazioni tecnologiche e organizzative.



Per comprendere meglio la portata del problema, e dei potenziali effetti sul mercato del lavoro, ferme restando le incognite legate alla seconda ondata dei contagi Covid sul complesso delle attività economiche, va considerato il fatto che per una buona parte delle imprese, quelle che non usufruiscono dei sostegni prima indicati, sono già state ripristinate le condizioni per una gestione ordinaria del personale. L’Inps ha reso noto che sono poco meno di 2 milioni i lavoratori coinvolti nelle procedure di cassa integrazione, mentre non è ancora stato comunicato il numero delle imprese e dei lavoratori che hanno usufruito degli sgravi fiscali. Ma è ragionevole presumere che queste ultime abbiano rinunciato all’utilizzo delle Cig per la necessità di utilizzare pienamente i lavoratori alle loro dipendenze.



Nel resto delle imprese, in particolare in quelle operanti nei comparti caratterizzati da una forte mobilità lavorativa, dalla stagionalità e da un forte utilizzo dei contratti a termine, gli effetti occupazionali sono stati già scontati in negativo nei 4 mesi, tra marzo e giugno, coincidenti con il blocco amministrativo delle attività produttive, con una riduzione di circa mezzo milione di rapporti di lavoro, e con recupero nei mesi successivi che dovrebbe proseguire nell’ultimo quadrimestre dell’anno in corso.

Tuttavia sarebbe un grave errore sottovalutare il passaggio atteso per l’inizio del prossimo anno. Il Governo e le parti sociali dovranno trovare un arco di soluzioni in grado di conciliare l’esigenza delle imprese di adeguare le loro strutture produttive con quella di contenere i costi sociali delle ristrutturazioni aziendali.



Su questo terreno esistono consolidate esperienze rivolte ad accompagnare in modo relativamente indolore l’esodo dei lavoratori anziani verso il pensionamento. E a tale fine il Governo ha già confermato l’intenzione di prolungare per il 2021 la norma che prevede la possibilità per le aziende di accompagnare alla pensione il personale in esubero, con oneri a carico delle stesse, erogando un assegno straordinario fino a 7 anni di anticipazione. Per questa finalità sono stati costituiti pressi l’Inps anche i Fondi di solidarietà finanziati dalle parti sociali, che potrebbero con l’occasione essere potenziati. Analogamente dovrebbe essere prorogata la possibilità di usufruire di un assegno straordinario per l’accompagnamento alla pensione di alcune categorie di lavoratori anziani nei tre anni che precedono l’età di pensionamento, la cosiddetta Ape social.

Un contributo per diluire nel tempo l’impatto degli esodi potrebbe essere fornito da un’ulteriore gamma di strumenti: i contratti di solidarietà che conciliano la riduzione degli orari pro capite con forme di sostegno al reddito, la possibilità di introdurre modalità di pensionamento graduale compatibili con i rapporti di lavoro part-time. L’efficacia di questi strumenti di contenimento dipenderà certamente dalla quantità dei lavoratori considerati in esubero. Il tutto assistito da un’ulteriore quota di risorse, del valore di 5 miliardi, che sarà inserita nella Legge di bilancio per finanziare in modo mirato le proroghe delle casse integrazioni anche per i settori particolarmente colpiti nel corso dell’emergenza Covid.

Tutto questo però determinerà, come avvenuto nella crisi economica della prima parte dell’ultimo decennio, una perdita di posti di lavoro di buona qualità. La vera scommessa occupazionale si gioca nell’ambito dei comparti dei servizi che nell’ultimo decennio hanno compensato la riduzione degli occupati nei settori della manifattura, delle costruzioni e della Pubblica amministrazione, con una crescita di posti di lavoro a part-time, circa 1 milione, buona parte dei quali a tempo determinato.

Questo tema è quello meno attenzionato a livello politico e dalle parti sociali. Tocca gli esclusi dal mercato del lavoro, i lavoratori meno protetti, i settori di attività che registrano un’elevata quota di lavoro sommerso, in buona parte svolta da immigrati con regolare permesso di soggiorno.

In questi settori di attività, caratterizzati come ricordato da lavoro stagionale, a termine e da un elevato livello di mobilità lavorativa, gli strumenti previsti per il comparto della manifattura e per le medie grandi aziende sono difficilmente applicabili. Lo potrebbero essere i servizi di incontro domanda e offerta di lavoro, accompagnati da sostegni al reddito ragionevoli per le fasi di transizione tra un lavoro e un altro. Altrettanto, la qualità dei percorsi formativi rivolti a ridurre il drammatico gap che si continua a registrare tra i profili richiesti dalle imprese e i lavoratori effettivamente disponibili.

Nei comparti dei servizi si concentrano tutte le distanze che ci separano dagli altri Paesi europei in termini di produttività, occupazione e livelli salariali. Una differenza, stimabile in un potenziale equivalente di 3 milioni di occupati, che non è il frutto di fattori incidentali, ma dei ritardi tecnologici e organizzativi delle imprese, delle carenze del nostro welfare in particolare nei comparti della sanità dell’assistenza e dei servizi alle persone, che ci separano dalle migliori esperienze in atto negli altri Paesi europei. È da qui che dobbiamo ripartire se vogliamo vincere la scommessa dell’occupazione.