Nel 2010, su proposta del Ministro Tremonti, il Governo guidato dal Premier Berlusconi approvò la manovra di primavera, necessaria per contenere gli effetti (negati fino a pochi mesi prima) della tremenda crisi economica scatenatasi nel 2008. Quella manovra è il decreto legge 78/2010, convertito nella legge 122/2010. Faceva parte di quel Governo, come si ricorderà, il professor Renato Brunetta, nel ruolo di ministro della Funzione Pubblica. Ruolo che è tornato a rivestire, 11 anni dopo.
In questa seconda tornata come inquilino di palazzo Vidoni, il Ministro, rispondendo a sollecitazioni dell’Associazione nazionale comuni d’Italia (Anci) si è impegnato ad abbandonare l’epoca: dei blocchi del turnover; dei tetti riferiti a indicatori anacronistici; delle rigidità contrattuali. Giusto e condivisibile. Ma, altrettanto giusto è chiedersi: quando è iniziata esattamente quell’epoca che adesso si intende chiudere? La risposta è semplice: proprio a decorrere dalla vigenza del d.l. 78/2010.
Quella legge ha, sinteticamente, imbrigliato ogni investimento sul personale pubblico:
a) dimezzando la spesa per formazione e aggiornamento rispetto al 2009;
b) introducendo un sistema cervellotico di tetto alla spesa per il trattamento economico dei dipendenti, per gli anni 2011-2013, congelandolo al 2010;
c) introducendo lo sciagurato tetto alle assunzioni nel limite del costo delle cessazioni dell’anno precedente, cioè il criterio del turnover;
d) introducendo un tetto alla spesa per assunzioni flessibili, pari al 50% di quella del 2009, corretta con successive riforme al 100% per gli enti locali che risultassero virtuosi sotto alcuni aspetti finanziari.
Il congelamento delle retribuzioni ricordato alla lettera b) del precedente elenco è la fonte del blocco della contrattazione collettiva, prolungatosi per anni, fino alla tornata del 2018.
Non si deve dimenticare che quella manovra del 2010 subì due clamorosi smacchi. Il primo, la pronuncia dell’illegittimità costituzionale (sentenza 223/2012) della trattenuta del 2,5% sul Tfr dei dipendenti pubblici, nonché il contributo di solidarietà del 5% e del 10% sulla parte di retribuzione eccedente, rispettivamente, 90 e 150 mila euro lordi annui. Il secondo, la declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 16, comma 1, lettera b), del d.l. 98/2011, convertito in legge 111/2011, altra manovra estiva per tentare di arginare la crisi (pochi giorni dopo sarebbe arrivata al Governo la famosa lettera di “messa in mora” della Bce e della Banca d’Italia a firma Trichet-Draghi): tale articolo aveva prorogato il congelamento dei contratti al 2014.
La sentenza della Consulta costrinse il Governo Renzi a riaprire la stagione contrattuale, anche se tracce dei tetti al trattamento accessorio restarono e sono ancora presenti nella riforma Madia del 2017, ai sensi della quale il salario accessorio non può superare il tetto del 2016.
Insomma, tra il 2010 e il 2011, sono stati introdotti esattamente i blocchi del turnover, i tetti anacronistici e le rigidità contrattuali che per un decennio hanno colpito la Pubblica amministrazione, determinandone l’invecchiamento, il depauperamento professionale, oltre che la diffusione di un’immagine di fannullonismo e inefficienza che l’ha marchiata a fuoco. Quei blocchi del turnover, quei tetti anacronistici, quelle rigidità contrattuali, ora, oggi, sono enunciati come un’epoca da superare, da parte di un esponente di quel Governo che 11 anni fa li introdusse, segnando per sempre ed in modo altamente negativo la funzionalità della Pubblica amministrazione in Italia.
È sempre positivo e utile cambiare idea. Come è anche vero che le scelte di politica sono condizionate ovviamente da fattori esterni e contingenti. Nel 2010 l’Italia era investita in pieno dalla formidabile crisi finanziaria, dalla quale in effetti non si è mai davvero ripresa. Nel 2021, oltre alla crisi dalla quale non si è usciti, vi è la pandemia e l’opportunità nel Next Generation Eu. Che il ministro della Funzione Pubblica sia, a distanza di 11 anni, il medesimo di quello che era componente del Governo cui si devono 11 anni di tagli lineari, blocchi contrattuali, rigidità, inefficienze, obslescenza e invecchiamento della Pa è certamente cosa assai singolare.
Le scelte di 11 anni fa furono un errore? Molti fattori, a distanza di tempo (anche se da subito tanti commentatori evidenziarono i rischi e i difetti di quelle norme), evidenziano di sì. C’era da mettere i conti pubblici sotto controllo, ma la strada intrapresa fu certamente sbagliata. Adesso, dopo 11 anni siamo al redde rationem. Forse, non è un male che a palazzo Vidoni vi sia lo stesso inquilino: può aver consapevolezza maggiore di altri dei correttivi da apportare. Non sarebbe male, però, se questo fosse accompagnato da una liberatoria ammissione degli errori commessi, ovviamente non da solo, all’epoca.