Andarsene il 14 luglio, per un ideologue come Eugenio Scalfari dev’essere stata una bella soddisfazione. Lui che dell’idea capace di modificare, se non di creare la realtà, aveva fatto il cavallo di battaglia. Che sia stato un grande giornalista, non v’è dubbio. Che sia stato un grande agitatore culturale, lo stesso. Che abbia rilanciato la funzione del giornale-partito, un po’ come l’Amis du peuple del compianto Marat, finito scannato nella vasca da bagno dalla mano omicida di Carlotta Corday, o come l’Osservatore Cattolico del prete Davide Albertario che intendeva intingere la penna nel sangue, va da sé.



Tuttavia, in un Paese come il nostro che demonizza e beatifica a spron battuto, andrebbe meglio compreso il peso specifico di un’esperienza complessa come quella di Repubblica e dell’Espresso, che certamente hanno lasciato un segno significativo nel nostro Paese.

Un tempo si diceva che il giornale di Scalfari era il giornale dei professori, di quel corpo intellettuale che, in gran parte deluso e frustrato, si sentiva rappresentato, più che dalla politica, da una repubblica dei sapienti che alla politica guardava dall’alto in basso, come guardava storto quel popolo che votava come non avrebbe dovuto votare, come l’intelligenza non avrebbe dovuto mai consentire.



Scalfari, per la verità, è morto con il Novecento, con quell’illusione sempre accompagnata dalla disillusione, che accomunava Calvino (suo compagno di scuola) e Vittorini, che dagli intellettuali potesse arrivare una spinta propulsiva (con innate presunzioni educative) al “bene” della Repubblica, che lo volesse o meno.

Sì, Scalfari è stato decisamente un intellettuale organico. Non in senso gramsciano, ovviamente. Ma sempre più al servizio di un’Italia che stava dismettendo i panni della propria identità culturale, morale, religiosa, negli stili di vita (il ruolo de l’Espresso negli anni Settanta è emblematico) senza rendersi conto, o senza fare i calcoli, con lo spappolamento che ne sarebbe derivato. Perché un popolo spappolato poi mica dà ascolto agli intellettuali, ma cade nelle braccia degli imbonitori.



Insomma, la solita presunzione elitaria sempre disillusa dalla realtà.

Poi, come sempre avviene (e questo vale anche per chi scrive), i vecchi terminano di comprendere il mondo, o meglio, il mondo non intende più comprendere i vecchi. Ecco allora le lenzuolate di moralismo laico, tanto simili a certe omelie di preti sociologi (scritte decisamente meglio a onor del vero) che fanno sbuffare i millennials, così come noi si sbuffava quando il nonno raccontava la guerra, la fame e di come si stava meglio quando si stava peggio.

Agli storici dell’età contemporanea e del giornalismo spetterà il compito di studiare scientificamente cosa l’Espresso e Repubblica hanno rappresentato nell’Italia delle infinite transizioni. L’ultima immagine che ci resta è, anch’essa un po’ così, quella del grande cercatore dell’Assoluto, dell’indagatore appassionato dei grandi Perché dell’esistenza, fino a riconoscere nel Papa un interlocutore privilegiato, un amico, un compagno di strada nel vago mondo degli interrogativi irrisolti. Fino al punto di benedirlo. Perché una cosa è comune a queste intelligenze originarie, il potere battesimale: ogni cosa ha valore solo in relazione al proprio punto di vista. Il resto, anche se vecchio di mille e mille anni, non esiste. O inizia ad esistere soltanto quando cade sotto il loro sguardo.

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