Proviamo ad andare al nocciolo del Grande Scambio di prigionieri (ostaggi) fra Usa e Russia. La “cupola” dem che ha decapitato Joe Biden e sta usando Kamala Harris come scudo contro Donald Trump ha deciso di giocare subito al tavolo delle presidenziali di novembre la carta geopolitica più pesante: il virtuale abbandono del causa ucraina attraverso la reale riapertura del dialogo con la Russia di Vladimir Putin, e una più che implicita mossa del cavallo sul fronte mediorientale: con una pressione meno diretta ma probabilmente più efficace su Israele perché chiuda al più presto la guerra di Gaza.



Fosse ancora vivo Henry Kissinger, sarebbe lecito chiedersi se dietro il Grande Scambio vi sia stato un suo suggerimento: un concentrato di fantasia diplomatica e di realpolitik (le stesse che ispirarono il leggendario viaggio di Richard Nixon in Cina nel 1972). Dunque: la candidatura di riserva di Harris per la Casa Bianca – al di là del luccichìo mediatico – non sta partendo meno azzoppata di quella di Biden, brutalmente tolto di mezzo per manifesta inferiorità dai maggiorenti del Partito democratico (in particolare Bill e Hillary Clinton).



La Casa Bianca “dem” – nata dalla “liberazione” da Trump nel 2020 – quattro anni dopo si è ritrovata di nuovo con “i barbari alle porte”: impopolare in casa per l’inflazione provocata da due maldestre avventure geopolitiche, ancor più impopolari in giro per il mondo (Europa compresa). In Ucraina e a Gaza gli Usa di Biden hanno registrato solo perdite, pesanti e assortite. A Kiev e dintorni hanno trasformato in “guerra mondiale” quella che meno di dieci anni prima (con Biden vice di Barack Obama alla Casa Bianca) era stata derubricata a crisi regionale (con la Russia “autorizzata” ad occupare la Crimea al prezzo di qualche blanda sanzione commissionata alla Ue).



Alla “monarchia” israeliana di Netanyahu è stato invece consentito di vendicarsi in modi inaccettabili (per l’Onu come per gli studenti dei campus Usa) di un estremo atto controffensivo dell’islam Iran-centrico contro la “pace di Abramo”: una road map che tuttavia era stata disegnata per il Medio Oriente da Trump, non da Biden, che l’ha fatta propria con qualche reticenza.

Che un cambio di passo, anzi uno strappo fosse urgente era sotto gli occhi di tutti, se possibile prima della convention democratica di metà mese a Chicago. Era evidente anche come – nel “qui e ora” geopolitico a cento giorni dal voto per la Casa Bianca – non fossero immaginabili scelte gratuite. Con tutta evidenza, gli Usa “dem” hanno quindi deciso di sacrificare Volodymyr Zelensky.

Negoziare “alla pari” con il Cremlino la liberazione di un giornalista del Wall Street Journal (testata di Rupert Murdoch, squalo di sistema, anti-dem, pro GOP ma contro Trump) equivale a cancellare tre anni di fatwa contro il “macellaio russo”. Significa rilegittimare al tavolo diplomatico una Russia non vinta ma certamente provata da tre anni di guerra: da mezzo milione di soldati morti stimati, da uno schiacciamento del tenore di vita per 150 milioni di russi, dalla disarticolazione dell’oligarchia finanziaria del “democrate” del Cremlino. Non da ultimo, riparlare con Mosca vuol dire rimettere in discussione la dipendenza russa dalla Cina, divenuta forzata dal febbraio 2022.

Il Grande Scambio varrà bene la proverbiale “messa” per i dem all’offensiva contro Trump? La fase due – quella ancora da realizzare in Medio Oriente – appare più incerta e impegnativa. il fatto che gli Usa abbiano trattato uno “scambio di ostaggi” con una controparte giudicata fino al giorno prima “il Male assoluto” come il Cremlino ha un valore segnaletico inequivocabile per Israele (così come per la comunità ebraica Usa, oggi in maggioranza pro–Trump). La destra nazionalista, messianica e militarista al potere e Gerusalemme non mostra tuttavia segni di cedimento: si ostina anzi nell’escalation contro l’Iran. Lancia missili letali contro gli interlocutori da 300 giorni per lo scambio di ostaggi, sinonimo di “cessate il fuoco”, con tutte le conseguenze di politica interna a Gerusalemme e internazionale (con epicentro Washington).

Finora Netanyahu è sempre sfuggito a ogni moral suasion da parte di Biden: rilanciando sempre, fino all’estremo esibizionismo della visita in America di pochi giorni fa (con un discorso al Congresso e due visite gemelle alla Casa Bianca e alla residenza privata di Trump). Ad essa è seguita la spettacolare eliminazione di un leader di Hamas a Teheran. Ma meno di tre giorni dopo i siti internazionali sono stati occupati dall’ancor più spettacolare Grande Scambio. Basta guerre, basta morti e distruzioni. Basta estremismi. È ora di ricominciare a “scambiare”: ostaggi ma anche piani di pace, di ricostruzione. È ora di ridare spazio alla democrazia, nel senso più lato. Si vedrà: negli Usa come in Israele. E anche in Europa.

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