Non deve sorprendere la scarcerazione di Giovanni Brusca, autore di oltre cento omicidi, tra cui quelli efferati del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido e del giudice Falcone e della sua scorta. È l’esito del patto stretto con lo Stato: la collaborazione con la giustizia e il contributo per la ricostruzione di innumerevoli fatti criminosi, con il conseguente arresto dei responsabili, in cambio di condanne più miti.



Nemmeno un ergastolo, solo condanne a pena determinata che, grazie ad un istituto del nostro codice penale, non può superare complessivamente i trent’anni di reclusione. Lo sconto per la buona condotta ha fatto il resto e i trent’anni sono diventati 25.

Ma interessante è capire come il detenuto Brusca ha trascorso questi 25 anni di prigione e se ora è un uomo nuovo. Aiutano in tal senso le motivazioni della sentenza della Corte di cassazione dell’ottobre 2019 che spiegano e giustificano le ragioni per cui il Tribunale di sorveglianza di Roma gli ha negato, e per la nona volta (!), la detenzione domiciliare. Si legge che il comportamento del detenuto è stato esemplare per quasi tutta la detenzione, tanto da poter ottenere nel tempo oltre 80 permessi premio.



Ci sono numerosi indici di positivo cambiamento: un buon livello di revisione critica del proprio passato, incontri coi parenti delle vittime, donazioni ad una Onlus cui devolve parte di una sua già assai scarna busta paga percepita in carcere, lo svolgimento di attività di volontariato oltre che la prova del suo distacco dalle organizzazioni criminali. Tutte condotte che gli hanno fatto guadagnare il parere favorevole della Dda (Direzione distrettuale antimafia), del Servizio centrale di protezione oltre che note di sintesi positive da parte degli educatori carcerari.

Ma i benefici gli sono stati comunque negati dal Tribunale. Fatto assolutamente raro dopo tanti anni di carcere e con il parere favorevole di tutti gli organismi preposti. Ha ritenuto il Tribunale di sorveglianza, e ha confermato la Cassazione nel 2019, che manca la prova del ravvedimento. Ha rilevato il Tribunale che non basta la collaborazione con la giustizia in quanto il “requisito del ravvedimento attiene non all’aspetto esteriore della condotta, ma ad una evoluzione positiva del carattere e delle abitudini di vita effettivamente operatasi nel detenuto… il ravvedimento è un concetto più pregnante ed incisivo che indica un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e di agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile”. Rileva, infine, la Cassazione che nonostante le indubbie manifestazioni di resipiscenza di Brusca, le iniziative riparatorie effettuate dal condannato non sono ancora prova di un suo compiuto ravvedimento essendo un percorso in tale direzione solo avviato.



Mancano elementi per valutare l’ultimo periodo di carcerazione, ma sta di fatto che ora la pena detentiva è stata interamente espiata. Residuano quattro anni di libertà vigilata (una misura di sicurezza che consiste nel non potersi allontanare da casa di notte ed oltre certi ambiti territoriali). Ma, come ricorda la Cassazione, il suo percorso riabilitativo in realtà è appena iniziato e solo nel tempo si potrà verificare se è stato vero pentimento.

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