L’Italia ha riportato a casa (in Libia) Osama Elmasry Njeem “Almasri”, accusato di crimini contro l’umanità, violando l’obbligo di arresto previsto dalla nostra adesione allo Statuto della Corte penale internazionale (CPI). Tra il contrasto al crimine e la “ragion di Stato”, il nostro governo ha scelto quest’ultima, e lo ha fatto per salvaguardare gli accordi siglati con le autorità di Tripoli in materia energetica e migratoria. Dunque l’“inerzia” del ministro Nordio, di cui si è tanto scritto in questi giorni, si spiega solo così.
Poi è stata la volta dell’avviso di garanzia notificato al presidente del Consiglio Meloni, ai ministri Nordio, Piantedosi e al sottosegretario Mantovano. Un altro capitolo, che è bene tenere distinto dal primo, se si vogliono valutare meglio le implicazioni – tutte politiche – che riguardano le decisioni della Corte. Possiamo disattendere il mandato di arresto di Netanyahu, come ha detto di voler fare l’Italia, e pretendere l’esecuzione di quello a carico di Putin?
“Non necessariamente l’esercizio della giustizia penale internazionale contribuisce al mantenimento della pace”, osserva Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Palermo e già presidente della SIDI. Ma questa differenza – “tra pace e repressione dei crimini” – è contemplata anche dalla CPI. Il governo italiano lo sapeva?
Professore, facciamo ordine. Perché siamo inadempienti verso la CPI?
Perché c’è un obbligo di cooperazione con la CPI, stabilito dall’art. 86 dello Statuto, che è stato disatteso.
Il caso Almasri pare un esempio lampante di applicazione della discrezionalità politica. Lo statuto della CPI la limita?
La cooperazione con la Corte non si esplica nella forma di una procedura estradizionale classica, che contempli, cioè, discrezionalità politica da parte degli Stati. Ciò emerge dallo Statuto ed è confermato dal testo dell’art. 4, par. 1, della legge italiana di adeguamento allo Statuto medesimo. Esso stabilisce che “Il Ministro della giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale”, senza prevedere un’autonoma valutazione da parte del ministro.
“Dà corso”, dunque. Senza eccezioni.
L’unico limite all’esecuzione di simili provvedimenti nell’ordinamento italiano non è di natura politica, ma concerne l’esigenza che essi siano rispettosi dei “principi fondamentali dell’ordinamento giuridico” (art. 1 della legge).
Sappiamo tutti che l’Italia ha accordi con il governo di Tripoli e forse con le milizie di Misurata, accordi che riguardano anche e soprattutto i flussi migratori. Cosa sappiamo del contenuto specifico di questi accordi?
Il quadro generale degli accordi in materia migratoria con la Libia è costituito ancora dal Memorandum del 2017, stipulato dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, all’epoca del Governo Gentiloni. Quell’accordo contempla, per quel che qui ci interessa, due punti. Il primo è la creazione di campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del ministero dell’Interno libico. Non è superfluo sottolineare l’importanza di questo aspetto, enunciato nel considerando n. 10.
E il secondo punto?
È l’impegno italiano a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione irregolare, fra i quali organi e dipartimenti competenti presso il ministero dell’Interno (art. 1). Con un’intesa di attuazione di questo Memorandum, nel giugno del 2023, l’Italia si è impegnata a consegnare alcune motovedette alla Guardia costiera libica – anch’essa sotto indagine, per crimini contro l’umanità – a fini di contrasto all’immigrazione irregolare. Tale intesa si accompagnava a un accordo fra ENI e National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera nazionale della Libia, implicante un investimento di 8 miliardi di dollari, volto a realizzare un flusso di 8,5 milioni di metri cubi di gas, dalla Libia, per i prossimi 25 anni.
Almasri non potrebbe essere parte di questo accordo?
Almasri è capo di uno dei dipartimenti del ministero dell’Interno libico, che è direttamente coinvolto dal Memorandum, sia nella cosiddetta “accoglienza”, sia nella lotta all’immigrazione irregolare, come ho detto. È dunque direttamente coinvolto nell’attuazione del Memorandum.
Quanto è grave la violazione del nostro obbligo di cooperazione con la CPI?
Direi parecchio grave, perlomeno per due ragioni, segnalate da Marina Castellaneta sul Manifesto (23 gennaio, nda) e dalla Società italiana di diritto internazionale. Innanzitutto perché il mandato di cattura si inserisce in un’indagine della CPI “coperta” dall’autorità del Consiglio di sicurezza Onu, essendo stata effettuata sulla base del deferimento della situazione libica alla Corte, da parte del Consiglio, ai sensi dell’art. 13, lettera b) dello Statuto. E poi perché fu proprio l’Italia a ospitare, nel 1998, la conferenza che creò la Corte e a promuoverne l’istituzione. Proprio l’Italia oggi si assume la responsabilità di una violazione dello Statuto nei confronti di tutti gli altri Stati parti dello Statuto, data la natura “erga omnes” (verso tutti, nda) dell’obbligo non adempiuto.
Lo Stato italiano è tenuto a dare conto della sua condotta?
Ai sensi dell’art. 87, par. 7, dello Statuto CPI, la Pre-Trial Chamber della Corte – che ha emanato il mandato di cattura – potrà accertare la violazione degli obblighi di cooperazione da parte italiana, come ha già fatto con la Mongolia a proposito del mancato arresto di Putin transitato da lì nell’agosto 2024, con una decisione del 24 ottobre 2024.
Ci sarà un procedimento?
Sì, un procedimento nel quale l’Italia sarà sicuramente chiamata a fornire spiegazioni e, sulla base di queste spiegazioni, la Pre-Trial Chamber potrà decidere se deferire la situazione all’Assemblea degli Stati parti dello Statuto, come ha già fatto con la Mongolia. Singolare destino quello dell’Italia, se ciò dovesse verificarsi.
Disattendendo gli obblighi della CPI, l’Italia indebolisce la Corte o indebolisce anche se stessa?
A me sembra che risultino più deboli entrambe. La CPI perché vede ineseguito, ancora una volta, un proprio mandato d’arresto; l’Italia perché non mi pare proprio un segno di forza quello dato con i comportamenti tenuti in questo caso.
Esiste una relazione tra la condotta dell’Italia verso la CPI nel caso Almasri e quella relativa al mandato di arresto di Netanyahu?
Mi pare che le posizioni adottate dal governo italiano manifestino, in entrambi i casi, una propensione a non osservare gli obblighi derivanti dallo Statuto. C’è però una differenza. Le dichiarazioni sul mandato di arresto di Netanyahu, per quanto contrastanti con una precisa decisione della Corte, possono trovare un certo ancoraggio nel diritto internazionale generale, dato che i capi di governo di Stati terzi rispetto allo Statuto godono dell’inviolabilità personale.
Per quanto riguarda Almasri, invece?
La sua mancata consegna mi sembra, in linea di principio, inescusabile sul piano giuridico internazionale, poiché quest’ultimo non gode di alcuna immunità giurisdizionale: neppure se risultasse che ha commesso i crimini che gli sono contestati in qualità di organo statale, ovvero di capo del Dipartimento della polizia giudiziaria libica.
Per quale ragione?
Perché l’immunità cosiddetta funzionale di organi statali non opera in caso di crimini contro l’umanità, dal momento che il diritto internazionale generale la esclude in relazione a processi aventi ad oggetto crimini contro l’umanità come quelli contestati ad Almasri. Sull’Italia c’è un’aggiunta da fare.
Prego.
La responsabilità internazionale dell’Italia varrebbe anche se la mancata consegna non dovesse rivelarsi il frutto di una precisa intenzione, ma di una negligenza dei vari soggetti coinvolti: polizia, ministro, procuratore generale e corte d’appello di Roma.
La nuova presidenza americana sembra ispirarsi ad un uso dei rapporti di forza diverso dalla precedente amministrazione. Cosa cambia per la CPI?
Per la CPI cambia in realtà poco, perché gli Stati Uniti non hanno mai ratificato lo Statuto della Corte. Potrebbe darsi che il Congresso USA riadotti l’Hague Invasion Act, che contemplava addirittura la possibilità dell’uso della forza armata al fine di evitare l’arresto e il processo, da parte della Corte, di militari americani, accusati di crimini previsti nello Statuto di Roma. Emanato sotto la prima presidenza Trump, era stato poi abrogato con la presidenza Biden. Ma la riadozione non è affatto scontata, perché proprio ieri, in Senato, i democratici sono riusciti a bloccare un progetto di legge volto a sanzionare la Corte per il mandato d’arresto contro Netanyahu.
Sta cambiando anche l’atteggiamento dell’Italia nei confronti della CPI?
Direi che l’Italia è co-protagonista di un atteggiamento di sfiducia nei confronti della Corte diffusosi anche in Stati diversi da quelli africani, dai quali quest’ultima è stata fortemente criticata negli ultimi anni.
Le ultime vicende riguardanti la CPI toccheranno in qualche modo il mandato di arresto ai danni di Putin, con ciò che eventualmente comporta per le trattative sulla pace in Ucraina?
Credo di sì. Basti considerare che anche la Svizzera, che è Stato parte dello Statuto, si è detta disposta a ospitare un vertice fra Trump e Putin, volto a trovare una soluzione per la crisi ucraina. Per quanto oggi tutto sembri diventato possibile, mi sembra molto difficile che Stati che hanno avanzato riserve sul mandato di arresto di Netanyahu, tra questi l’Italia, adottino una posizione diversa nei confronti del presidente russo, perlomeno finché questo resta in carica.
Ci sta dicendo che la giustizia penale internazionale può talvolta ostacolare la pace o, semplicemente, il lavoro della politica?
Non necessariamente l’esercizio della giustizia penale internazionale contribuisce al mantenimento della pace: mi pare dimostrato dall’evoluzione dell’atteggiamento riguardo all’esecuzione del mandato di arresto di Putin, nella prospettiva dell’avvio di una negoziazione. D’altra parte, proprio per la non coincidenza fra pace e repressione di crimini, lo Statuto di Roma (della CPI, nda) prevede che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite possa chiedere di sospendere le sue attività per un anno, rinnovabile, qualora valuti che l’indagine su un determinato caso possa interferire con il suo compito di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 16).
E quanto alla politica?
Una cosa è il perseguimento dell’interesse nazionale del singolo Stato parte, come quello che sembra emergere nella vicenda Almasri; altra cosa l’interesse collettivo al mantenimento della pace. Chiunque può apprezzarne la differenza… E comunque, non è un caso che nessun rilievo giuridico sia attribuito, nello Statuto di Roma, al primo interesse.
(Federico Ferraù)
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