Quando si parla di Africa si è soliti fare riferimento alla presenza francese e più recentemente a quella cinese e russa. Dal punto di vista storico però si dimentica l’importanza della presenza israeliana. L’interesse che Israele ha avuto per l’Africa è di natura politica, economica e militare. Israele – come i paesi europei ed extra-europei che avevano colonizzato per secoli l’Africa – era interessato a sfruttare le risorse africane e fu certamente questa una delle ragioni che indusse lo Stato ebraico a porre in essere partnership di natura diplomatica ed economica con la Repubblica Centrafricana a partire dal 1960.



Grazie alla de-secretazione di numerosi documenti dello Stato di Israele è stato possibile accertare che esso forniva assistenza militare ai gruppi ribelli che combattevano in Rhodesia e, in secondo luogo, a partire dal 1964 siglò accordi con il leader politico dello Zimbabwe e cioè Robert Mugabe. Fra le ragioni di questa partnership vi è naturalmente l’addestramento che i soldati africani nel contesto della guerriglia ricevettero dagli israeliani.



Un altro aspetto poco conosciuto in relazione al rapporto tra Israele e l’Africa fu il sostegno che Israele diede al regime dell’apartheid sudafricano, il cui centro di potere era Pretoria, regime che sorse nel 1948. A partire dagli anni 70 Israele sostenne sostanzialmente il regime di Pretoria. Solo una piccola e sparuta minoranza di ebrei sostenne invece l’Africa National Congress. Quali potevano essere i legami di affinità tra Israele e il regime sudafricano? Certamente il fatto che entrambi erano costruiti sulll’apartheid e, in secondo luogo, sull’uso della forza armata per imporsi sulle minoranze.



I rapporti tra i due Paesi si consolideranno a partire dagli anni 70, come dimostra il fatto che il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin invitò in Israele il primo ministro sudafricano Balthazar Vorster nonostante il fatto che durante la seconda guerra mondiale fosse stato una simpatizzante nazista oltre che essere stato un membro fra i più importanti del gruppo Afrikaner di ispirazione fascista conosciuto come Ossewabrandwag. La profonda affinità fra le due nazioni fu tale che, a partire dal 1975, fu siglato un accordo relativo all’industria militare. Fu Israele, sostanzialmente, a creare l’industria sudafricana delle armi. Il Sudafrica finanziava l’industria israeliana e questa dava il proprio know how. Il legame fu talmente stretto che nonostante l’embargo sulle armi che fu posto dall’ONU negli anni 80, Israele continuò ad aiutare militarmente il Sudafrica.

Ma esiste un altro aspetto ancora meno noto relativamente ai rapporti fra Israele e il Sudafrica, e cioè il nucleare. Pretoria possiede una riserva rilevante di uranio, ma non avendo le conoscenze tecniche adeguate si rivolse proprio a Israele, tanto che a partire dal 1979 permise ad Israele di condurre test nucleari nell’Oceano Indiano. Il Sudafrica infatti voleva servirsi di queste armi come deterrenza.

Anche l’India, molto più recentemente, ha mostrato affinità con Israele. L’attuale primo ministro Narendra Modi, appartenente al partito nazionalista indù (BJP), vuole sopprimere l’indipendenza del Kashmir proprio per ragioni di natura etnica. Non dimentichiamoci che questo territorio è occupato da 12 milioni di abitanti, ma mezzo milione di soldati indiani lo occupano in modo illegittimo. Non è un caso che proprio a partire dal 2019 il governo indiano abbia abolito tutti quegli articoli della costituzione indiana che consentivano l’autonomia dello Stato federato di Jammu e del Kashmir. Ma naturalmente – come nel caso del regime di Pretoria – esistono relazioni di tipo economico nel settore degli armamenti.

Consideriamo che l’India fino al 2020 è stato il principale mercato israeliano di esportazione di armi (stando ai dati del SIPRI di Stoccolma, nel 2019 Israele era l’ottavo maggiore venditore di armi al mondo). Una delle ragioni di un così stretto legame a livello militare non nasce soltanto dalla nota rivalità con il Pakistan, ma anche dal fatto che l’India farebbe volentieri a meno dei kashmiri, basti pensare che nel 2022 le autorità indiane hanno demolito le case delle minoranze musulmane nello Stato dell’Utar Pradesh utilizzando i bulldozer, mentre i musulmani indiani hanno storicamente subito linciaggi, violenze e soprattutto minacce di pulizia etnica. Dal punto di vista strettamente ideologico, inoltre, i nazionalisti indù ammirano Israele perché questo è uno Stato etnico, e non è un caso che la più importante organizzazione paramilitare nazionalista indù, e cioè la Rashtriya Swayamsevak Sang, abbia sempre espresso ammirazione per lo Stato ebraico.

Se veniamo ai giorni nostri le relazioni bilaterali tra l’attuale premier indiano e quello israeliano si sono rafforzate a partire dal 2021: Israele ha dato l’autorizzazione ai propri fabbricanti d’armi di commerciare i propri prodotti con l’India nonostante ci fosse il Covid. Un altro interessante parallelismo tra le due nazioni è quello relativo agli insediamenti dei kashmiri. Infatti, a partire dal 2019, coloro che non appartengono a questa etnia hanno la possibilità di acquistare proprietà in maniera tale da realizzare una silenziosa discriminazione su base etnica. Come in Palestina, anche in questo contesto gli abitanti sono continuamente assediati da posti di blocco, interruzione di collegamenti di elettricità, di Internet e restrizioni imposte dalle forze di sicurezza indiane. Non deve sorprendere allora il fatto che, a partire dal 2019, il primo ministro indiano abbia volutamente escluso la minoranza musulmana dalla possibilità di ottenere la cittadinanza a differenza invece delle comunità indù, cristiane o buddhiste che invece l’hanno ottenuto. Una procedura questa che per certi versi ricorda quella israeliana: non dimentichiamoci infatti che Israele si riserva di decidere se rilasciare o meno i passaporti e le carte identità ai palestinesi, così come di rilasciare o meno i permessi per entrare o uscire dal territorio.

Ma anche la Cina ha ottimi rapporti con Israele, in relazione per esempio ai sistemi di sorveglianza. Una delle più note aziende israeliane, e cioè la Magal Security Sistems, ha venduto alla Cina sistemi di rilevamento negli aeroporti cinesi. Ma a questo punto diventa inevitabile trarre una considerazione sulla ipocrisia della politica del doppio standard che viene praticata in Occidente: Israele ha costruito un sistema di apartheid contro i palestinesi, e la Cina sta facendo di tutto per eliminare la minoranza musulmana uiguri. Nonostante non si possa creare un parallelismo tra il sistema politico americano e quello israeliano, è indubbio tuttavia che gli Stati Uniti ci sono avvalsi delle competenze israeliane per controllare la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Partendo dal dato di fatto che il numero dei migranti morti è salito in modo vertiginoso a partire dal 2019, va ricordato che sono state proprio due aziende israeliane a rendere possibile la sorveglianza delle frontiere tra USA e Messico. Una di queste è la Magal, le cui azioni, dopo l’elezione di Trump, sono salite del 20%; l’altra azienda – di certo più famosa – è la Elbit, che ha costruito un sistema sofisticato di strumenti di sorveglianza per un valore complessivo di 218 milioni di dollari e che, utilizzando telecamere ad infrarossi, serve a controllare 24 ore al giorno il tratto di frontiera lungo 100 km tra l’Arizona e lo Stato messicano di Sonora.

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