Il 15 settembre dell’anno scorso venivano firmati gli Accordi di Abramo, il trattato promosso da Donald Trump che normalizzava le relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
I risvolti positivi di questi accordi si cominciano a notare anche sotto gli aspetti economici, in particolare con gli Eau. Come riporta The Jerusalem Post, questi accordi stanno portando a un forte sviluppo delle relazioni commerciali tra i due Paesi, delineando anche una strategia di più ampio respiro. Per Israele, gli Emirati rappresentano una rilevante porta di ingresso verso gli altri Paesi del Golfo e i mercati dell’Asia del Sud e dell’Africa Orientale; per gli Emirati, Israele rappresenta un utile canale per raggiungere più efficacemente l’esteso mercato statunitense.
Il nuovo governo israeliano, succeduto nello scorso giugno ai dodici anni di Benjamin Netanyahu, sta cercando di ampliare ad altri Paesi arabi la stabilizzazione dei rapporti diplomatici e commerciali. Gli Accordi sono stati firmati anche dal Sudan, con sviluppi limitati anche per la critica situazione interna del Paese, e con il Marocco. Le buone relazioni instaurate con Rabat hanno però comportato la rottura con l’Algeria, che ha accusato Israele di appoggiare il Marocco nella controversia per la sovranità sul Sahara Occidentale, regione contesa anche dal Fronte Polisario che ne ha proclamato l’indipendenza. Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano, durante la sua recente visita in Marocco, ha a sua volta accusato l’Algeria di essersi sempre più avvicinata all’Iran.
La situazione non semplice del Medio Oriente e del Nord Africa pone quindi all’allargamento degli Accordi di Abramo diversi problemi, e uno dei maggiori rimane la irrisolta questione palestinese. Non a caso, i palestinesi hanno accettato piuttosto male gli Accordi, ritenendoli un tradimento della loro causa. La questione palestinese rimane tuttora un problema anche per la politica interna israeliana, particolarmente per un governo complesso come l’attuale, esito di quattro elezioni generali in poco più di due anni, e costituito da 8 partiti che vanno dalla destra alla sinistra. L’inclusione nel governo, per la prima volta nella storia di Israele, anche di un partito degli arabi-israeliani, il Ra’am, ha portato in un certo senso la questione palestinese all’interno del governo stesso.
Gli arabi rappresentano più del 20% della popolazione israeliana e si sentono messi da parte dalla politica del Paese, invisi alle destre e loro stessi divisi nei confronti della questione palestinese. L’inclusione di uno dei loro partiti nel governo è un segnale di distensione, ma ha provocato ulteriori opposizioni nella destra e tra gli elettori di Yamina, il partito del primo ministro Naftali Bennett. La perdita di consenso di cui sta soffrendo Bennett è probabilmente una concausa della sua rigida posizione, che lo ha portato a rifiutare la soluzione dei due Stati. Bennett ha affermato che uno Stato palestinese rischierebbe di trasformare anche la Cisgiordania in una nuova Gaza, rendendo impossibile la vita in Israele. Si è anche rifiutato di parlare con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, accusandolo di fiancheggiare i terroristi, ma ha offerto aiuto economico per sollevare le condizioni di vita dei palestinesi.
Isaac Herzog, il laburista capo dello Stato da questo giugno, ha tenuto invece un atteggiamento completamente diverso, con un paio di cordiali colloqui telefonici con Abbas. Anche Benny Gantz, ministro della Difesa, ha incontrato Abbas alla fine di agosto a Ramallah, promettendo le misure di aiuto economico poi fatte proprie anche da Bennett. Da notare che in queste proposte economiche è compresa anche Gaza. Non è da escludere che si tratti di una politica tesa a portare avanti una comune strategia di stabilizzazione dei rapporti interni ed esterni, cercando di “tener buoni”, per così dire, i rispettivi elettorati. D’altra parte, se cade questo governo diventano molto probabili nuove elezioni, per la quinta volta dall’aprile del 2019.
Tutti e tre gli autorevoli politici, Herzog, Bennett e Gantz, hanno invece avuto contatti diretti con il re di Giordania, Abdullah, pur avvolti in un certo alone di segretezza. Appare comunque chiaro l’intento di ristabilire relazioni positive con un Paese molto importante nella questione palestinese e con il quale esistono rapporti diplomatici dal 1994. Le relazioni con Amman si erano deteriorate con il governo di Netanyahu e la situazione era precipitata all’inizio di quest’anno con gli ostacoli posti da Netanyahu alla visita del principe ereditario di Giordania alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme.
Per quanto riguarda invece l’Egitto, primo firmatario di un trattato di pace con Israele nel 1979, i rapporti sempre costanti con Israele hanno avuto un rafforzamento nel recente incontro di Bennett con Al Sisi. I due Paesi collaborano nella lotta alle organizzazioni islamiste nel Sinai e hanno un comune interesse a normalizzare la situazione nella Striscia di Gaza, combattendone le fazioni più estremiste. Sotto il profilo economico, importanti sono le esportazioni di gas da Israele verso l’Egitto e, per quest’ultimo, è rilevante l’afflusso di turisti israeliani.
Rimane quindi confermato che, piaccia o meno, Israele rimane un punto centrale per ogni sviluppo nella regione e che la sua stabilità interna e la normalizzazione dei rapporti con gli Stati vicini sono nell’interesse di tutti.
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