Il Presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, si sta preparando ad entrare nella Casa Bianca, dove dovrà dimostrare di essere immediatamente operativo, sia per la politica interna che per quella estera. Al di là delle polemiche sulla reale portata della sua vittoria su Donald Trump, Biden non sembra aver entusiasmato più che tanto gli americani, anche se alcuni suoi caratteri, diciamo così “sbiaditi”, possono aver fatto premio sulle esagerazioni di The Donald.
La sensazione, come ha detto qualcuno, è che si sia scelto “l’usato sicuro” per arginare non solo Trump, ma anche alcuni esponenti della sinistra Democratica, come Bernie Sanders o Elisabeth Warren. Anche la scelta dei collaboratori sembra andare in questa direzione, una ripresa del passato, e si può perfino pensare a una possibile regia dietro le quinte di Barack Obama. Dopo tutto, se Trump continua a ventilare una sua ricandidatura per il 2024, perché non pensare la stessa cosa per Obama?
Su questo sfondo, risulta particolarmente interessante la scelta di Kamala Harris come vicepresidente, non solo per l’età: 56 anni, tre meno di Obama, contro i 78 di Biden, i 74 di Trump e i 73 di Hillary Clinton. La Harris risponde a tutti gli elementi di political correctness dei Democratici: è donna, di origini indiane e caraibiche, aperta alle idee progressiste tipo gender. Dopo Obama, un definitivo sdoganamento delle minoranze, almeno di quelle che fanno parte dell’apparato, così come Biden lo è dei cattolici, purché progressisti. Sul piano interno, la Harris “copre” Biden verso la sinistra, ma rassicurando anche il resto del partito in quanto ben inserita nel sistema e rispettosa dei suoi parametri, come appare dalla sua passata attività di procuratore in California.
Più interessante, almeno per noi europei, cercare di capire quali saranno le sue posizioni in politica estera e le prime impressioni sono per un sostanziale allineamento a quelle enunciate da Biden in campagna elettorale, a partire dal contrasto con la Cina. Qui, secondo qualche commentatore statunitense, ci si può aspettare dalla Harris una maggiore sottolineatura degli aspetti repressivi del regime cinese, a cominciare dagli uiguri, e una possibile maggiore attenzione verso la sorte di Hong Kong.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, la Harris è sempre stata decisamente critica verso il regime saudita e, come senatrice, ha sostenuto il blocco della vendita di armi all’Arabia Saudita a causa della guerra nello Yemen. Sulla questione palestinese le sue posizioni sono molto nette in favore della politica dei due Stati e per una soluzione pacifica che tolga l’isolamento alla Striscia di Gaza. Si sottolinea, però, che ciò non significa una rottura con Israele, sia per Biden che per Harris, il cui marito tra l’altro è un avvocato ebreo.
La sua origine indiana è stata accolta con molto favore in India ed è probabile un suo coinvolgimento diretto nei rapporti con questo Paese, sempre più importante per il confronto con la Cina e per la presenza americana in Asia e nel Pacifico. Qualche problema le potrà derivare dalle caratteristiche del governo di Narendra Modi, non proprio in linea con i principi del Partito Democratico.
L’altra sua origine, quella caraibica, influenzerà certamente le politiche verso l’America Latina, dove gli Stati Uniti devono per parecchi versi ricostruire una loro presenza fattiva. Anche in questa regione, il duo presidenziale avrà a che fare con governi spesso molto lontani dai loro principi. Un punto particolarmente ostico riguarderà la politica sull’immigrazione, problema molto pesante e reso più drammatico dalla pandemia e dalla crisi economica, che rende non semplice mettere in pratica le buone intenzioni. Vi saranno senz’altro attenuazioni della dura politica di Trump, ma occorre ricordare che Obama, con Biden vicepresidente, ha costruito molti più chilometri di muro sul confine messicano di quanto avesse promesso, per poi non realizzarlo, Trump.
I rapporti con l’Europa saranno invece molto più influenzati dalla “origine” irlandese di Biden. Sia Biden che Harris hanno più volte sottolineato l’esigenza di ristabilire le alleanze messe a rischio dalla politica di Trump, in particolare verso la Ue. Ciò potrebbe portare a un riavvicinamento soprattutto con la Germania, ma rimangono, al di là del cambiamento dei toni, divergenze di interessi che non sarà immediato risolvere. Tra questi, accanto ai rapporti con Cina e Russia, vi è la questione Nato, dove la posizione di Biden non sembra essere sostanzialmente diversa da quella di Trump. L’attuale frammentazione dell’Unione rischia, poi, un confronto in ordine sparso degli Stati europei con la nuova Amministrazione Usa.
Anche le relazioni con l’alleato per eccellenza, il Regno Unito, si presentano problematiche e torna alla mente la dichiarazione di Obama nel 2016 durante la sua visita a Londra: nel caso di uscita dall’Ue, il Regno Unito sarebbe finito “in fondo alla coda” nelle trattative commerciali con gli Usa. A questa minaccia rispose con toni altrettanto duri l’allora sindaco di Londra, Boris Johnson, attribuendo l’uscita alla parziale eredità “coloniale” di Obama, cioè alla sua parte keniota. Sarà interessante vedere come l’allora vicepresidente Biden si relazionerà con l’ex sindaco, ora primo ministro, Johnson, e a Brexit ormai in procinto di nascere.