Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto-legge che introduce il “Piano Mattei” per “lo sviluppo in Stati del continente africano”. Il “Piano Mattei”, si legge nel comunicato stampa del Governo, avrà “l’obiettivo di potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del Continente africano, promuovere uno sviluppo economico e sociale sostenibile e duraturo di questi ultimi e prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari”.



La parola “Mattei” evoca nell’immaginario collettivo l’epopea del miracolo economico italiano: un Paese uscito distrutto dalla guerra, con il contributo decisivo dell’Eni di Mattei, diventa una delle principali potenze industriali del mondo. La capacità di tessere relazioni con i Paesi produttori insieme alla tecnologia italiana consentono a un Paese che non ha risorse naturali di porre le basi per un processo di industrializzazione con pochi paragoni. Oggi la sfida si ripropone, perché la fine delle relazioni con la Russia, i passi falsi in Libia e non solo rendono le forniture energetiche italiane precarie e soprattutto costose al punto di minacciare il benessere conquistato dopo la Seconda guerra mondiale; in gioco c’è la stessa industria italiana, che non può competere, nonostante la sua tecnologia e la sua efficienza, senza energia abbondante, economica e affidabile.



Il “Piano Mattei” ha il merito di porre correttamente i termini della sfida, ma il contesto geopolitico del 2023 e lo stato di salute dell’Italia oggi sono solo un lontanissimo parente di quelli del 1946. Quello attuale è caratterizzato da una fase di tensioni tra superpotenze che non ha probabilmente paragoni dal dopoguerra. I conflitti “caldi” appena fuori dai confini dell’Europa e dentro lo stesso Vecchio continente, non solo in Ucraina, si aggravano e il sistema è caratterizzato da una competizione serrata; la proiezione della Russia e della Cina sia nell’Africa mediterranea che in quella subsahariana è solo un esempio.



Il contesto geopolitico è profondamente diverso da quello del 1946. L’Italia non è un Paese emergente, ma un Paese diventato ricchissimo che ha smesso di crescere da almeno due decenni, se non tre, con tanto debito, un processo di integrazione europeo mal riuscito e succube dei cambiamenti geopolitici degli ultimi anni. Il problema dell’Italia è non perdere il benessere che ha conquistato e fermare un declino che sembra inarrestabile e che si manifesta nella più bassa crescita dei salari tra i Paesi sviluppati.

In questo quadro mostrare consapevolezza delle sfide energetiche e politiche, immaginando un “Piano Mattei”, è positivo, ma dichiarare al mondo intenzioni di protagonismo da una posizione di debolezza rischia di essere un azzardo. L’Italia non è la Turchia di Erdogan che può giocare, con spregiudicatezza, su più tavoli ritagliandosi spazi di sovranità reale nei rapporti diplomatici e che può contare, eventualmente, anche su un uso coraggioso della forza militare. L’Italia è il Paese che prima ha perso la Libia, il suo dirimpettaio con le sue colossali risorse energetiche, e che poi ha mancato, una dopo l’altra, ogni possibilità di recupero. L’Italia oggi non ha l’autonomia e la flessibilità nei rapporti internazionali che invece aveva il Paese di Enrico Mattei.

Eppure, nonostante questo, tante aziende italiane fanno “Piani Mattei” senza annunci, spesso conquistando contratti prestigiosi in alcuni dei settori più strategici: estrazione, raffinazione, fertilizzanti, trattamento del gas e del petrolio sia sulla sponda africana del Mediterraneo, sia nell’Africa subsahariana, piuttosto che in Medio Oriente o nelle ex Repubbliche sovietiche. La leva è la competenza tecnologica. Paradossalmente, la debolezza politica italiana è in qualche modo un vantaggio competitivo, perché i Paesi produttori non sono costretti a prendere, insieme ai capitali e alla tecnologia, anche un partner scomodo e potenzialmente in grado di trattare da una posizione di relativa forza.

Non è chiaro se nell’attuale contesto i proclami di protagonismo siano un aiuto o meno ai “Piani Mattei” in atto, che forse hanno bisogno solo di un supporto discreto. Oggi si respira un clima da “tutti contro tutti” che forse non è il caso di alimentare, soprattutto da una posizione di debolezza finanziaria, economica e politica.

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